Anello saltatore (Jumping Ring)

ANELLO SALTATORE (Jumping Ring) CONSIDERAZIONI TEORICHE E RILIEVI SPERIMENTALI

di Lorenzo Cognigni
30 gennaio 2024

SINTESI
L’esperimento dell’anello saltatore (eseguito per la prima volta da Elihu Thomson nel 1887 e successivamente esteso con la levitazione da John A. Fleming nel 1890) è la più evidente dimostrazione applicativa della legge dell’induzione elettromagnetica: un anello conduttore, di diametro leggermente più grande del nucleo,  viene posto a circondare il nucleo ferromagnetico di una bobina (vedere nella foto sotto), ad una certa distanza dalla sua base  e fatto saltare e/o levitare al passaggio di corrente alternata nella bobina avvolta intorno al nucleo.
DESCRIZIONE DELL’APPARATO SPERIMENTALE
La prima foto mostra l’apparato sperimentale utilizzato e presentato  da chi scrive in occasione del Tombolone scientifico” all’ITT Montani di Fermo.
Il Tombolone scientifico è un insieme di giochi scientifici costituiti da 90 esperimenti interattivi organizzati nei vari plessi dell’Istituto. I partecipanti ricevono una cartella con 5 numeri corrispondenti a 5 esperimenti e, sotto la guida di uno staff di studenti e docenti del Montani, ognuno  di essi arriverà a fare “Tombolone”  svolgendo e/o assistendo alle esperienze assegnate; tutti riceveranno un premio inerente alla curiosità scientifica e tecnica.
Esso è diventato una tradizione che dura da più di 17 anni e che vede una larga partecipazione di pubblico.
L’apparecchio è costituito da un solenoide di 850 spire realizzato da chi scrive con le attrezzature della scuola con filo smaltato di rame di 2,1 mm di diametro avvolto su un supporto tubolare in plastica all’interno del quale è stato inserito un nucleo ferromagnetico costituito da fili di ferro dolce. Il circuito magnetico sporge verso l’alto dal solenoide per circa 45 cm. Le dimensioni geometriche dell’apparato sono riportate in figura 1; esso è alimentato alla tensione di rete a 230 V.
Figura 1 – Dispositivo di prova (nucleo in ferro)

Al posto dei tipici anelli sono stati utilizzati  cilindretti cavi di alluminio di varia altezza il cui diametro interno è leggermente più grande del diametro del nucleo ferromagnetico e presentano un minore attrito con l’aria durante la fase di espulsione  rispetto agli anelli tradizionali. Le numerose misure condotte in laboratorio hanno consentito di determinare tutti i parametri elettrici del modello circuitale della bobina.
Allo scopo è stato utilizzato lo strumento da tavolo “MeetBOX-25P+6” di IRS didattica che contiene al suo interno schede di acquisizione National Instruments: cDAQ NI 9202, cRIO NI 9411, NI 9210.
In pratica lo strumento può essere impiegato per la trasduzione di segnali elettrici monofase, trifase e per l’acquisizione di altri segnali analogici tramite software LabVIEW. Può inoltre gestire gli I/O digitali messi a disposizione sistema DAQ.
La serie di misure ha consentito di rilevare la tensione di alimentazione, la corrente assorbita e lo sfasamento tra esse.
La corrente assorbita dalla bobina è fortemente deformata rispetto all’andamento sinusoidale della tensione impressa. Ciò è ovviamente dovuto alla non linearità introdotta dal ferro del circuito magnetico. La figura 2 mostra la schermata di acquisizione relativa al cilindretto cavo di altezza 25 mm.
Figura 2 – Schermata elaborazione dati acquisiti con MeetBOX.

I calcoli, effettuati con la sola corrente fondamentale, avente stessa fase e valore efficace di quella reale, hanno fornito i seguenti risultati: le correnti assorbite, primaria I1 (nella bobina) e secondaria I2 (nel tubolare), presentano, nel campo di variazione delle altezze del cilindretto cavo (da 5 mm a 65 mm), un massimo in prossimità del valore h = 25 mm (figura 3).
Figura 3 – Andamento delle correnti nella bobina (I1) e nel cilindretto cavo (I2).

Anche l’andamento della potenza assorbita P (e quella dissipata per effetto Joule ΔP) mostra un massimo in corrispondenza dell’altezza h = 25 mm (figura 4).Figura 4 – Potenza assorbita dalla bobina e potenza dissipata nel cilindretto cavo.

L’andamento crescente di I2 con h non porta ad un aumento dell’altezza di lancio. Probabilmente per via dell’aumento di peso del tubo e degli effetti di saturazione.
Per migliorare le prestazioni dello “sparo” è stata effettuata anche una prova di lancio collegando in serie al circuito un condensatore di capacità 200 μF (condizione di risonanza con tubo h = 25 mm):
Il salto è aumentato di circa 50 cm, ma non in modo sorprendente come ci si aspettava (forse per la saturazione del circuito magnetico).
Il Prof. Guido Pegna in un suo articolo [1] fra l’altro ha riportato fondamentali correzioni alle spiegazioni che si trovano in letteratura sul funzionamento dell’apparato di Thomson.
 Il 15 gennaio del 2024 Fabio Panfili, che nutre alcune perplessità dovute a lacune nelle spiegazioni teoriche del funzionamento dell’apparecchio di E. Thomson, ha suggerito a chi scrive di mettere l’apparato in orizzontale e di porre dapprima un anello conduttore tra la base e la metà della bobina per vederne il comportamento in seguito al passaggio della corrente nella bobina (caso a).
Successivamente si mette l’anello tra la metà della bobina e la parte più lontana dalla base e si fa passare la corrente (caso b).
Figura 5 – Un esperimento inusuale

Il giorno 16 /01/2024 chi scrive ha realizzato un anello di filo di rame di diametro più grande della bobina ed ha eseguito  l’inusuale esperimento.
Con non poca meraviglia si è visto che nel primo caso l’anello va verso la base, mentre nel secondo caso l’anello si allontana dalla base.
Questo fenomeno pone un problema di non immediata soluzione sulle cause di questo comportamento.
Inoltre, in linea esclusivamente teorica, se l’anello  si trovasse esattamente nel mezzo della bobina dovrebbe restare in equilibrio. In pratica questa condizione è ovviamente irrealizzabile.
 Successivamente l’apparecchio è stato messo in verticale e, a parte l’effetto del peso dell’anello di rame,  il comportamento era identico.Nelle due  figure tratte da Catalogue des Appareils pour l’Enseignement de la Physique construits par E. Leybold’s Nachfolger Cologne, 1905;  rinvenibile all’indirizzo:
http://cnum.cnam.fr/PDF/cnum_M9915_1.pdf  si vede un antico apparecchio di Elihu Thomson. La fig. 8576 mostra che, se si tiene una spira ferma che circonda il nucleo, in essa si induce una  corrente che accende una lampadina.
Nelle foto in fondo al testo si vedono due esemplari di apparecchi di Thomson che fanno parte della collezione del  Montani.

DESCRIZIONE DELLA SECONDA SERIE DI ESPERIMENTI – BOBINA IN ARIA (CANNONE ELETTROMAGNETICO)

Una seconda serie di esperimenti è stata condotta con una bobina di poche spire (25 di diametro) di forma piatta senza ferro ed un anello di alluminio. L’esperimento originale , ideato dal Prof. Pegna [4], prevedeva l’alimentazione della bobina con una corrente impulsiva fornita dalla scarica di un condensatore (2200 μF, 385 V) precedentemente caricato alla tensione di rete:  figura 7 e figura 8 dell’articolo [1] citato in bibliografia.Figura 7 – Il cannone elettromagnetico. Il disco è fotografato spostato per mettere in evidenza la bobina. Il condensatore è il grosso cilindro nero sulla destra, mentre il teleruttore e in primo piano.Figura 8 –  Schema del Cannone Elettromagnetico.  T è un teleruttore con i quattro contatti t1 – t4 in parallelo. C.I. è un diodo LED che indica il livello di carica del condensatore. REMOTE CONTROL è il telecomando, opportuno  per motivi di sicurezza.

In un primo momento si è realizzata e provata la soluzione proposta dal Prof. Guido Pegna ottenendo ottimi risultati: “l’anello” veniva sparato verso l’alto e batteva contro il soffitto, a circa 4 m di altezza (aula laboratorio della scuola).
Per questo motivo il Prof. Pegna lo ha battezzato cannone elettromagnetico.
Successivamente si è pensato che fosse possibile migliorare le prestazioni del dispositivo collegando due condensatori in serie per aumentare la tensione di alimentazione della bobina e, quindi, la corrente circolante nella stessa.
Si è così realizzato un circuito in grado di caricare due condensatori connessi prima in parallelo e, successivamente  con una connessione automatica in serie, provvedere all’alimentazione della bobina.
La figura 6 mostra lo schema circuitale con l’aggiunta di alcuni LED per segnalare il livello di carica dei condensatori.
Il circuito è stato realizzato e collaudato in un primo momento inserendo i condensatori in una scatola di legno sul cui coperchio posticcio era incollata la bobina di lancio. Il primo “tiro” ha prodotto la fusione e la saldatura reciproca dei contatti del teleruttore e lo sfondamento del coperchio di legno lasciando intuire le potenzialità della soluzione.
Ricostruita la scatola contenitore in modo più robusto e sostituito il contattore con uno di maggior corrente nominale si sono ottenuti risultati sorprendenti: l’altezza dello “sparo” (anche nel significato acustico della parola), misurata all’esterno di un edificio con metro laser puntato verso il cornicione del tetto, ha superato i 15 m !
Ovviamente si potrebbe procedere caricando più condensatori e/o realizzando connessioni serie-parallelo per aumentare anche la carica posta in gioco.Figura 6 – Schema circuitale della variante del “cannone elettromagnetico.

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 Bibliografia.
[1] Guido Pegna – L’anello saltatore e nuove storie – La Fisica  Nella Scuola-  Anno XLVI -n.1 – gennaio/marzo 2013.
J. Taweepong, K. Thamahpat, S. Limsuwan – Jumping ring experiment: effect of temperature, non-magnetic         material and applied current on the jump height – I-SEEC2011 Physics Procedia · December 2012.
Paul J. H. Tjossem, Victor Cornejo – Measurements and mechanisms of Thomson’s jumping ring – American         Association of Physics Teachers – Am. J. Phys. 68 ~3!, March 2000.
Paul J. H. Tjossem and Elizabeth C. Brost – Optimizing Thomson’s jumping ring – American Association of Physics  Teachers – Am. J. Phys. 79 14″, April 2011.
Celso L. Ladera, Guillermo Donoso – Unveiling the physics of the Thomson jumping ring – Departamento de Física,        Universidad Simón Bolívar – Caracas 1086, Venezuela – PACS Nos. 41.20.Gz, 85.70.Rp, 41.20.-q, 01.50.Pa, 01.50.My.
Battistini – Elettrotecnica generale – Vol. I e II – Colombo Cursi – Pisa.
A.E. Fitzgerald – C. Kingsley – Jr. A. Kusko – Macchine elettriche – Franco Angeli.

Ringrazio Fabio Panfili per la  preziosa e indispensabile collaborazione e per avermi segnalato nel 2013  l’articolo di Guido Pegna: articolo che mi ha incuriosito a tal punto da costruire sia il “cannone elettromagnetico” con le varianti descritte, sia il tradizionale apparato di Thomson qui esposti.
 Ringrazio inoltre  Rocco Congiusti per la competente e assidua  assistenza durante le misure e le prove sperimentali.

I due apparecchi della collezione del Montani.

 

 

Dalla collezione di Angelo e poi Giuseppe Mandolesi. Alcune pagine di appunti sulle macchine utensili.

Dalla collezione di Angelo e poi Giuseppe Mandolesi.
Alcune pagine di appunti sulle macchine utensili.

di Fabio Panfili

Giuseppe Mandolesi, venuto a mancare nel Marzo del 2023, aveva conservato con molta cura i quaderni, altro materiale scolastico e le cartoline che suo padre Angelo gli aveva lasciato.
I quaderni erano stati usati dal padre Angelo durante la  frequenza  dell’allora Regio Istituto Industriale Nazionale, dall’anno scolastico 1924 /1925 fino all’anno scolastico 1928 /1929.
Così come le numerose cartoline, acquistate nello spesso periodo, riportano le foto dell’Istituto eseguite dallo Studio Seganti nei primi del Novecento.
Esse sono visibili alla voce: Immagini Storiche.
Le ho preferite a quelle conservate nella Biblioteca del Montani, poiché sono molto più nitide.
I direttori dell’epoca erano: dal 1923 al 1928 Plinio Luraschi e dal 1929 al 1937 l’ing. Mario Stella (1), come si vede nel certificato rilasciato nel 1931.
Angelo Mandolesi divenne poi disegnatore in una sede distaccata della FIAT.
 Nel 2015 Giuseppe, dopo aver visitato questo Museo Virtuale, mi aveva contattato per inviarmi le immagini digitali delle cartoline e di alcune copertine di quaderni in suo possesso perché riteneva, a ragione, che potessero interessare i visitatori del sito.
Il suo desiderio era di condividere la memoria del periodo nel quale il padre Angelo era studente dell’Istituto e convittore.
Era evidente nelle sue parole con quale intensità suo padre gli avesse trasmesso i ricordi della permanenza a Fermo.
Già da qualche tempo avevo l’intenzione di presentare alcune pagine di appunti di Meccanica, scritte da Angelo, ma volevo corredarle con un documento della sua promozione finale, conseguita con ottimi voti.
Laura, la consorte di Giuseppe, mi ha dato l’assenso a questa pubblicazione.
La ringrazio.
Quando Giuseppe mi spedì le immagini, pensai di fargli cosa gradita nel rintracciare i documenti che riguardavano il padre Angelo.
 Per mia fortuna c’è un attento conoscitore dell’archivio didattico storico; archivio che si trova nel piano terra in corrispondenza dell’ingresso del Triennio e a cui si accede con una porta che dà sul cortile alberato a ovest del Triennio.
Gaetano Marini mi condusse nel labirinto degli scaffali dell’archivio colmi di numerosissime schede.
Nel brogliaccio dell’archivio non c’era corrispondenza tra il nome e il numero del faldone; Gaetano si mise all’opera e riuscì ugualmente a trovare tutto il materiale documentale.
L’esperto Massimo Ciccola realizzò le copie digitali che subito spedii.

Alcuni documenti, risalenti al 1924, sono bruciacchiati ai bordi, quasi certamente in seguito all’incendio del 1928 (1).
In altre occasioni Gaetano trovò con facilità antichi documenti didattici, richiesti in copia digitale da altri che avevano collaborato in qualche modo alla realizzazione del Museo Virtuale.
Lo ringrazio  per la sua cortesia e disponibilità.
Nel Triennio esistono altri piccoli archivi che pochi conoscono.
Qui riporto un certificato degli esami di licenza e di abilitazione avvenuti alla fine del V° anno scolastico (1928/1929), un documento dai bordi bruciati necessario per l’iscrizione al 1° anno (1924/1925) e alcune pagine del quaderno.
Un sentito ringaziamento va alla famiglia Mandolesi.

Nota (1): Settimio Virgili, Il Montani, Storia dell’Istituto Tecnico Industriale di Fermo, 2005, da pag. 109 a pag. 136.


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La centrale termoelettrica nelle Officine dell’Istituto Montani ricostruita su una documentazione parziale da integrare.

 La centrale termoelettrica nelle  Officine dell’Istituto Montani ricostruita su una documentazione parziale da integrare.
 di Fabio Panfili
La centrale termoelettrica, costruita presso le Officine  dell’allora Scuola Industriale delle Marche (già Scuola d’Arti e Mestieri di Fermo) dopo il 1883, serviva essenzialmente per alimentare elettricamente i reparti delle Officine.
Sotto la direzione dell’ing. Egidio Garuffa, il primitivo macchinario mobile per la produzione di energia  fu sostituito da una centrale motrice fissa(1). Osservare una foto d’epoca.

Mentre in una foto successiva nel tempo si osserva la centrale termoelettrica, centrale che in seguito fu demolita e sostituita con la cabina elettrica che ancor oggi (2023) è al suo posto (1).
La centrale termoelettrica costituisce una efficace sintesi delle due rivoluzioni industriali: la prima dovuta all’invenzione delle macchine a vapore, la seconda all’invenzione delle macchine elettriche.
Queste note  a carattere storico non hanno il supporto di alcuni documenti conservati nella Biblioteca del Montani attualmente chiusa (2023).  Ma sono basate solo sulle fonti di chi ha trovato parte della documentazione inerente a detta centrale, con  alcune planimetrie, cartoline e foto d’epoca. Pertanto esse potrebbero avere  ulteriori sviluppi.

A destra vi è la caldaia Cornovaglia.

La cartolina qui sopra è della collezione Angelo e poi Giuseppe Mandolesi. Generatore e aspiratore Langen  e Wolf.
Le foto sono state attentamente studiate dagli ingegneri Lorenzo Cognigni e Claudio Profumieri; inoltre dai fisici Fabio Panfili ed Elvezio Serena, e dallo storico e biologo Settimio Virgili.
 L’architetta Francesca Turtù (autrice di una tesi di laurea sulla storia delle Officine del Montani(2)), ha fornito preziose indicazioni confermate da una relazione del 1935 firmata dall’allora Preside Mario Stella e pubblicata in questo sito.
Alcune notizie sono dovute al  prof. Cesare Perticari.
Siamo in possesso di altre due immagini di una analoga centrale sorta presso l’Istituto di Argirocastro, forse nel 1930, legato storicamente all’Istituto G. e M. Montani di Fermo, con cui è attualmente gemellato.
Ma le immagini non spiegano sufficientemente le funzioni delle macchine che vi appaiono.
Nel documento a cura del Preside Mario Stella intitolato: Dati Statistici per la Mostra di Istruzione Tecnica del 1936, alle pagine 11 e 12 si legge:
« 63-  N.1 motore a gas povero “Langen  e Wolf” – HP.40 completo di gassogeno Skrubber accoppiato con:
64- N. 1 alternatore  “Siemens Schuchert werke” V.235 A. 3 ÷ 61,5 f. 50 Kw. 25 cos φ = 0,8 N = 1000 eccitato da dinamo V. 65 A. 13,5 Kw. 0,88 n. 1000.
65-  N. 1 motrice a vapore della “Suffert & C.” – Milano.
66-  N. 1 caldaia fissa tipo Cornovaglia della “Suffert & C.” – Milano.
67- N. 1 quadro di distribuzione dell’energia elettrica su pannello in marmo munito di:
  N. 1 amperometro   0 ÷ 100 A.
N. 1 amperometro 0 ÷ 20 A.
N. 1 amperometro 0 ÷ 10 A.
N. 1 voltometro   0 ÷ 260 V.
N. 1 reostato.
N. 2 interruttori ad olio.
N. 3 interruttori unipolari a coltello.
N.1 interruttore bipolare a coltello. »
Tranne il quadro in marmo visibile solo di lato o in parte, la macchina termica a gas povero e la dinamo eccitatrice dell’alternatore, gli altri apparecchi sono tutti ben visibili nelle foto.
Qui ne riportiamo solo alcune  ma  altre foto si possono osservare alla voce: “Immagini d’epoca”. Una pianta risalente al 1907, attribuita al prof . G. Agostini, (insegnante nell’Istituto  ed ex allievo),  indica l’esistenza di due centrali termiche(2)
Una, chiamata “d Motrice ” è ubicata isolata tra i due rami laterali delle Officine, si può individuare nelle due antiche foto degli esterni prese da ovest. Si noti  nella prima foto il flebile fumo uscente da un piccolo tubo.
Un’altra, chiamata “4 Motrice”, è sita sul lato opposto, ma di questa  non abbiamo né foto né alcuna notizia.Mentre la pianta delle officine, redatta dal Lucentini nel 1941 e rinvenuta in un documento risalente al 1951 dall’arch. F. Turtù  nell’Archivio Storico del Montani (2), colloca la centrale termica a sud ovest, tra il Reparto torneria (1), il cortile (3, 4 , 5) e la Saldatura lavorazione a freddo (7, 8). La parete ad ovest confina con la strada.
Nella pianta del Lucentini è presente la cabina elettrica, che oggi (2023) è situata nello stesso posto e  che dunque pare abbia preso il posto della precedente centrale termica visibile nelle prime due foto esterne.
A destra del cerchietto verde si vede la centrale termica e a destra del cerchietto rosso si trova  la cabina elettrica.
Nel documento di M. Stella, visibile in questo sito, a pag. 21 sono elencati i consumi distinti di energia elettrica per motori  e apparecchi da quella per illuminazione.
Una delle più antiche e semplici forme di caldaia a tubo di fumo, denominata caldaia Cornovaglia, fu quella di Richard Trevithick installata intorno al 1812 in una miniera presso Dolcoath.
  L’inizio della diffusione delle caldaie a tubi di fumo (dette anche a tubi di fiamma) risale agli anni tra 1825 e 1830.  Una caldaia Cornovaglia è costituita da un corpo cilindrico il cui diametro può variare generalmente tra 1,5 m e 2,5 m, attraversato per tutta la sua lunghezza da un tubo di diametro piuttosto elevato (circa un metro). Tale tubo contiene ad una estremità (quella di governo) una graticola sulla quale viene posto il combustibile da bruciare; i gas caldi della combustione, alimentata dall’aria esterna, vengono tirati all’interno del rispettivo tubo di fiamma e lo percorrono per tutta la sua lunghezza scaricandosi in un condotto in muratura che li costringono a percorrere un fianco e la parte inferiore della caldaia fino a raggiungere la parte anteriore da dove, sempre mediante canalizzazione in muratura, raggiungono nuovamente la parte posteriore lambendo l’altro fianco e la parte superiore della caldaia; si scaricano infine nel camino dopo avere riscaldata tutta la superficie esterna della caldaia. Una caldaia di questo tipo, data la grande quantità d’acqua contenuta, richiede un periodo di tempo notevole prima di raggiungere il regime di servizio e ciò a causa del rapporto sfavorevole tra volume d’acqua e superficie di riscaldamento. Per contro messe a regime lo mantengono facilmente anche in presenza di forti prelievi di vapore in quanto la quantità elevata di liquido agisce da volano termico.
Nelle foto si vede chiaramente una macchina a vapore con il classico distributore del vapore a cassetta e con sopra il famoso regolatore di Watt. Questa macchina, tramite  cinghie permetteva il funzionamento dei torni e  delle altre macchine operatrici.
Si noti il famoso regolatore di Watt con le due sfere rotanti.
Per il suo funzionamento vedere le figure qui sotto ; si ricorda che cliccando col tasto destro del mouse su una immagine fra le opzioni vi è il suo ingrandimento.
Sul pavimento vi è una traccia del collegamento tra la caldaia e la macchina termica,
Pertanto è necessario ipotizzare che questa macchina a vapore sia stata sostituita successivamente  con una macchina termica alimentata a gas povero collegata direttamente alla grande ruota che tramite una cinghia azionava il generatore elettrico. Macchina che però non si vede chiaramente in nessuna foto.  Si può pensare comunque che sia in parte nascosta dietro il grande volano collegato da una cinghia alla macchina elettrica.
La prima rivoluzione industriale  si può far coincidere storicamente con il brevetto del 1698 della macchina a vapore di Thomas Savery ( 1650 – 1715), che serviva a prelevare acqua nel pozzo di una miniera. Seguirono poi le macchine di Thomas Newcomen (1663 – 1729), di James Watt (1736  – 1819), ed altri.
 R. Trevithick costruisce la prima locomotiva nel 1804 con un motore a stantuffo molto efficiente, perfezionato poi da George Stephenson (1781 – 1848) .
Le figure sono tratte da una gif  che si trova all’indirizzo: Steam_engine_ in_ action.gif  (630×410)
Una certa cautela richiede l’interpretazione delle immagini che riguardano il generatore elettrico. All’epoca erano molto diffuse le dinamo, ma gli esami svolti non danno risposte sul tipo di spazzole e collettore; anzi, la presenza in una foto di due collegamenti distinti, ognuno composto da tre fili, potrebbe suggerire che si tratti di un alternatore trifase, ma c’è qualcosa che ancora non è chiaro nella loro disposizione.
Mentre la prima rivoluzione industriale nacque dalle invenzioni di costruttori ingegnosi e solo in seguito si ebbero gli studi teorici di termodinamica, la seconda rivoluzione industriale è storicamente preceduta da studi e prove sperimentali nei laboratori, a cui molto dopo seguirono le applicazioni industriali. Ad esempio il primo generatore in corrente continua fu costruito nel 1832 da Hippolyte Pixii (1808 – 1835) su suggerimento di André Marie Ampère (1775 -1836 ) (3) .
Dunque la seconda rivoluzione industriale iniziò intorno alla seconda metà dell’Ottocento, ma solo nel 1883 uno dei primi impianti in corrente alternata fu presentato all’Esposizione di Londra ed alimentava un motore ed alcune lampade ad incandescenza.  La centrale termica di S. Redegonda del 1883  disponeva di sei dinamo da 100 KW a 125 volt, ma all’epoca la corrente continua non poteva essere modificata per il suo trasporto in lontananza, mentre con i trasformatori in corrente alternata si poteva fare.  Da qui sorse una disputa mondiale sull’uso delle correnti continua e alternata e quindi sull’uso delle dinamo o degli alternatori (3) .
Con la seconda rivoluzione industriale iniziò la diffusione dell’istruzione tecnica in Italia, della quale l’Istituto Montani è uno dei  precursori.
Nelle immagini si vedono: un cilindro forse per la condensazione del vapore e un quadro elettrico con alcuni strumenti dei quali forse alcuni ci sono pervenuti.
Inoltre dal confronto delle immagini si notano mutamenti sia nella disposizione dei macchinari, dei cilindri, ecc. , sia nel numero di rotismi ad esempio della macchina a vapore, sia di varie tubazioni, lampade, ecc, che fanno pensare a foto eseguite in varie epoche.
Bibliografia.

(1) S. Virgili,  Il Montani, Storia dell’Istituto Tecnico Industriale di Fermo, 2005.

(2) F. Turtù,  L’evoluzione storica ed urbanistica delle officine una rilettura in corso, apparso su AA. VV. ,  Il Montani di Fermo Tutela di un patrimonio,  edito da Italia Nostra Sez. di Fermo, 2000.

(3) AA.VV. PPC Progetto Fisica Voll. A e B,  Zanichelli, Bologna 1986.
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Dati statistici per la Mostra delle Scuole di Istruzione Tecnica del 1936

Pubblicazione a cura di Fabio Panfili.

Tra i numerosi documenti presenti nella Biblioteca dell’Istituto Montani c’è questa relazione, redatta su
ordine dell’allora Preside Mario Stella, a mio parere molto significativa per avere una visione generale dei Laboratori, Officine, Attrezzature e Strumentazioni in dotazione alla Scuola nel 1935.
Infatti, la conoscenza dei numerosi inventari redatti dal 1906 in poi, pur dettagliati e ponderosi, non può dare una descrizione di insieme così efficace.
E dico questo in base all’esperienza che ho maturato negli anni in fatto di consultazione degli inventari!
Nonostante lo scrupolo filologico, dettato dal rispetto verso chi ha redatto il documento, ho corretto le poche voci errate, lasciando intatto, laddove ho potuto, l’aspetto della redazione fatta con la macchina da scrivere e i suoi i tipici caratteri a volte sporchi impressi con l’inchiostro del nastro sulla carta.
Il Dott. Ing. Mario Stella fu Preside dell’Istituto dal 1828 al 1937.
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Bibliografia minima:
Settimio Virgili, Il Montani, Storia dell’Istituto Tecnico Industriale di Fermo, 2005.
Alessandro Marcianesi, Una storia per Immagini Istituto Tecnico Industriale Montani, A. Livi, Fermo, 2004.







All’origine del Museo MITI

  di Fabio Panfili
L’idea di erigere un museo presso l’Istituto Tecnico Industriale G. e M. Montani risale a fine anni Ottanta.
Il Consiglio di Istituto di quel tempo, su sollecitazione di due persone lungimiranti(1), individuò come sede alcuni locali comunicanti e suggestivi a pianterreno (detti “le grotte”) dell’antico monastero degli Agostiniani, edificio divenuto proprietà del Montani nel 1903.

Poco dopo iniziarono i lavori di restauro dei locali. Però l’iniziativa non ebbe seguito per vari motivi, tra i quali le nuove leggi sulla sicurezza con l’esigenza di realizzare strutture antincendio ecc. , strutture che furono ubicate proprio nelle “grotte”.

L’Istituto Tecnico Industriale Montani di Fermo è forse il più antico d’Italia nel suo genere (1854 anno di fondazione). Seguono il Rossi di Vicenza e il Volta di Napoli.

 È sorprendente la nascita di una scuola industriale in una provincia caratterizzata da una economia quasi esclusivamente agricola.  

Ci si aspetterebbe dunque che una scuola così antica e così grande avesse un patrimonio di attrezzature tecnico scientifiche notevole. Purtroppo invece è mancata una cultura della conservazione, che non significa solo mettere gli oggetti sotto vetro, ma piuttosto recuperarne le funzioni nel loro contesto storico per trasmetterne il significato scientifico.

La perdita della gran parte degli strumenti elencati nei numerosi inventari si potrebbe attribuire  alla carenza di luoghi di conservazione e alla necessità di far spazio a nuovi macchinari e strumentazioni nei laboratori, ma è una ipotesi debole per chi conosce bene le strutture dell’Istituto.

        Ciò che resta appare comunque ricco e pregevole, ma la parte cospicua delle attrezzature e delle strumentazioni perdute avrebbe meglio rappresentato la storia industriale dell’intero Paese.

         Come esempio di ciò che nel tempo è andato perduto al Montani, mi sembra significativo ricordare la scomparsa di un magnetron, acquistato nel 1941. Questo strumento nel 1938 era oggetto di studi serrati, in Inghilterra e al M.I.T. di Boston e ciò prova quanto questa  Scuola si tenesse aggiornata. Il magnetron è il cuore del radar in fase di trasmissione e, per inciso, anche del comune forno a microonde.

Un magnetron è in alto a sinistra nella foto di uno scorcio della Sala 4. 

    Riporto qualche dettaglio di tipo storico a supporto di quello che si è detto.

Nel primo inventario oggi esistente del 1906 sono elencati: officine di meccanica motrice e dinamo, fonderia, fabbri, falegnami, elettrotecnica; inoltre i gabinetti di meccanica, fisica e chimica, elettrotecnica, chimica e scuola di plastica.

Nei primi anni della sua fondazione, l’insegnamento pratico si articolava in molti indirizzi, ma la prima vera specializzazione fu la Meccanica. Furono istituite successivamente: l’Elettrotecnica (1903), la Chimica (1926), la Radiotecnica (1930), l’Elettronica Industriale (1959) e l’Informatica (1969), la denominazione di alcune di esse nel corso degli anni è stata modificata. Alcune sono scomparse sostituite da altre specializzazioni.


Alcuni strumenti di Chimica, scorcio della sala 4.

Molto esplicativa è una relazione scritta il 30 novembre 1935 dal Preside Mario Stella. All’epoca esistevano sei gabinetti scientifici, per un totale di tredici laboratori riguardanti: fisica, chimica, elettrotecnica, radiotecnica, tecnologia e macchine. I reparti di officina erano dieci: fonderia, falegnameria, torneria, montaggio, trattamenti termici, fucina, saldatura autogena, elettromeccanica, lavorazione del ferro.


Alcuni strumenti di Elettronica, scorcio della sala 4.

Il Montani e la sua storia si identificano con le sue officine, con i suoi laboratori, e con le numerosissime persone che vi hanno passato una parte della loro vita. In questa scuola c’è stato un continuo accumularsi di strumenti, cataloghi, schede di istruzioni, libri, inventari. Un felice intreccio che permette ricerche storiche, magari a volte frammentarie.

Un aspetto importante: questi strumenti non erano soltanto oggetti da vedere in dimostrazioni ex cathedra, ma venivano usati dagli studenti, erano quindi vissuti.

Essi dunque diventavano maestri silenti.


Si vuole qui sottolineare l’importanza di conservare la memoria dell’intreccio tra lo sviluppo delle idee e dell’uso degli strumenti e il fatto che, nel contempo, il loro studio può aprire nuovi orizzonti all’indagine e a nuove idee.

   La catalogazione degli strumenti dell’Istituto, non è scaturita da un preciso disegno, ma piuttosto da una serie di avvenimenti.
 Nel marzo del 1985 si tenne, nella Sala dei Ritratti del Palazzo dei Priori del Comune di Fermo, un convegno su “Temistocle Calzecchi Onesti e il coherer nella conquista della telegrafia senza fili”. L’ideatore del convegno era il prof. Mario Guidone.
Vi fu il coinvolgimento di vari Enti, di molte scuole superiori di Fermo e di vari scienziati dell’Università di Bologna.
Il gruppo di lavoro del Montani, di cui facevo parte, presentò una ricostruzione del primo apparecchio radio a onde a fascio di Marconi (1896). Questa fu una occasione per scovare nei laboratori del vasto ex convento, tuttora sede del Triennio, due potenti rocchetti di Ruhmkorff e un antico ricevitore telegrafico Morse, risalenti a fine Ottocento, e per restaurarli. Il restauro del ricevitore telegrafico Morse fu opera di Leone Bolognini, mentre Federico Balilli si occupò del rocchetto più grande e della costruzione di un coherer, con il supporto competente di Mario Guidone e del prof. Claudio Marcotulli.
Le antenne erano state messe a nostra disposizione dall’antico Liceo Classico A. Caro di Fermo, dove Calzecchi era stato allievo, aveva poi insegnato ed eseguito esperimenti sistematici sulle proprietà del tubetto a polveri metalliche negli anni 1894-85-86, esperimenti pubblicati su Il Nuovo Cimento.
Nel fuoco dell’antenna cilindrica a sezione parabolica del ricevitore marconiano, c’è infatti il coherer.

 Questo fu un passo forse significativo.

Nel 1987 gli atti del convegno furono raccolti nella pubblicazione a cura di E. Fedeli e M. Guidone, La conquista della telegrafia senza fili, Temistocle Calzecchi Onesti e il coherer, Ed. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, patrocinato dal Comune di Fermo e presentato in una conferenza.

Nello stesso anno vennero messe nel corridoio che porta all’Aula Magna del Triennio del Montani le prime vetrine contenenti alcuni strumenti, senza un preciso progetto ma con il sogno di un futuro museo.

In questo periodo fu organizzata una mostra di esperimenti che ebbe una certa risonanza a livello regionale.

Nel luglio del 1990 il prof. Mario Guidone ed il prof. Ettore Fedeli inviarono al Consiglio di Istituto una bozza di delibera (1) per l’istituzione di un museo e, in seguito all’approvazione del Consiglio di Istituto(2 e 3), inviarono l’opportuna documentazione a Roma. I lavori nelle “grotte” iniziarono e se ne vede ancor oggi la sabbiatura delle antiche volte, ma il progetto non ebbe seguito, come si è già detto.

L’impulso più forte venne comunque dalla partecipazione della scuola alle Settimane della Cultura Scientifica dal 1993 al 1996. All’allestimento degli esperimenti da mostrare al pubblico contribuirono numerosi insegnanti e molti allievi, ma l’organizzazione si dovette a poche persone. Queste ultime sentirono la necessità di procedere lungo le direttive seguenti: 1°) la catalogazione e il restauro di antichi strumenti, 2°) il riordino dell’Archivio Storico e della Biblioteca.
Tra gli organizzatori vanno citati: l’allora vicepreside prof. Giuseppe Calcinaro, che si occupò a lungo della sistemazione e catalogazione di moltissimi strumenti; e la prof.ssa Guglielmina Rogante per la parte storica e la cura della Biblioteca.
In seguito G. Calcinaro mi chiese di continuare nella cura della collezione degli strumenti del Montani.
Non ci furono fatti nuovi fino all’ottobre del 1998, la sezione di Fermo di Italia Nostra, sotto la presidenza del prof. Elvezio Serena, organizzò un convegno su “Il Montani di Fermo, tutela di un patrimonio”.  A cui seguì nel novembre del 2000 la pubblicazione degli atti, per la salvaguardia del patrimonio dell’Istituto.

In seguito al sopralluogo effettuato dall’arch. D. Cardamone, su sollecitazione del Presidente del Consiglio di Istituto Luciano Scafà, nel maggio del 2000, la Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici della Regione Marche richiese una documentazione, che comprendeva tra l’altro una precisa catalogazione degli strumenti più significativi, aventi oltre cinquanta anni, per essere sottoposti a tutela, secondo quanto previsto dall’art. 3 del Testo Unico n°440 del 1999. (4)


Alcuni strumenti di Meccanica, scorcio della Sala 4.

Un grosso problema della catalogazione riguarda i numerosi inventari che vanno dal 1906 ad oggi, e ognuno di essi è il risultato di un censimento fatto con numerazioni e sigle diverse dagli altri. Ciò comporta che sullo strumento si trovano numeri e sigle di varia e incerta provenienza. Inoltre lo stesso apparecchio viene, negli anni, descritto con nomi diversi e a volte errati: nel 1906 il metro campione viene chiamato “Pisati”, nel 1912 si chiama “metro campione in cassetta” e tale rimarrà fino al 1956. Nessuno può oggi garantire che sia lo stesso! Ma Giuseppe Pisati non era un costruttore, anzi  era uno scienziato che si occupava di metrologia, e per un certo periodo insegnò in Ancona.  Una ipotesi con qualche fondamento è che detto metro sia della Max Kohl e che forse un professore del Montani abbia chiesto a Pisati un consiglio su quale metro acquistare. Però è anche strano che l’oggetto non riporti il marchio della Max Kohl.
A volte l’identificazione degli strumenti è molto difficoltosa: l’elettroscopio di Wulf, ad esempio, era stato classificato come strumento ottico, perché attraverso una lente si osservava un tubo vuoto. Del resto si ignorava l’esistenza di questo tipo di elettroscopio, fino a quando io, consultando sistematicamente vecchie schede di istruzioni della casa costruttrice Leybold, lo identificai.
Nelle istruzioni c’era inoltre il disegno dell’equipaggio mobile e questo fu rinvenuto dal tecnico di laboratorio Federico Balilli, che ha una prodigiosa memoria degli strumenti in dotazione del laboratorio di fisica e li sa restaurare.
Oggi l’elettroscopio, datato 1941, fa bella mostra di sé al MITI e si può osservare il fermaglio di quarzo, sottile come il filo di una tela di ragno, che tende la fogliolina di alluminio dell’equipaggio mobile all’interno del tubo.


Il metro campione è in basso a sinistra nella foto di uno scorcio della Sala 4; l’elettroscopio di Wulf  è in alto a destra.

 Riprendo il filo storico del discorso.

Nel 2004 venne il grande progetto della Mostra Scientifica per il 150° anniversario della nascita della Scuola. La realizzazione della mostra fu affidata dal Comune di Fermo (uno degli enti promotori) a dei bravi professionisti. Parteciparono vari enti e associazioni, comprese la Provincia di Ascoli Piceno e la Cassa di Risparmio di Fermo. Un Comitato doveva scegliere gli ambienti e soprattutto pochi e significativi apparecchi.

Alcuni strumenti di Radiotecnica, scorcio della sala 4.

Il vicepreside prof. Mauro Tomassetti si distinse per le sue notevoli capacità organizzative, come del resto in altre occasioni, non ultima la fattiva presenza alla realizzazione del MITI.
La mostra ebbe una forte risonanza e grande partecipazione, anche per l’attaccamento di numerosissimi ex alunni alla Scuola.

Questo avvenimento fu forse il più decisivo per lo sviluppo dell’idea di realizzare  un museo.

Ne seguì la pubblicazione di un bel volume, I.T.I. ‘MONTANI’ FERMO 150 Scuola Tecnica Società Moderna, edito da Nardini  Firenze.

Alcuni strumenti di Elettrotecnica, scorcio della sala 4.

Nel 2005, su idea della dirigente prof.ssa Silvia Fazzini e con il supporto di numerosi sponsor, furono pubblicati due libri in unico cofanetto: IL MONTANI Storia dell’Istituto Tecnico Industriale di Fermo, di Settimio Virgili e STRUMENTI NELLA STORIA DEL MONTANI di Fabio Panfili(5).


Alcuni dispositivi di Informatica, scorcio della sala 4.

 In questo periodo, la Provincia di Ascoli Piceno, presidente Massimo Rossi, fece redigere i progetti dettagliati sulla fattibilità del museo; le antiche officine meccaniche, esempio notevole di archeologia industriale, diventarono la sua sede naturale.


L’Assessorato alla Cultura di Ascoli Piceno, per il fattivo e costante interessamento soprattutto della titolare prof.ssa Olimpia Gobbi, era riuscito a destinare una cifra ragguardevole per l’istituzione del Museo del Montani.
 Nel frattempo Olimpia Gobbi aveva  chiesto ai dirigenti del Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano (dott. Salvatore Sutera ed altri) di indicarle a chi rivolgersi per la progettazione  del museo, inoltre si mise in contatto con i dirigenti del Museo del Balì.
In estate un gruppo di responsabili del Museo di Milano, su invito sempre di Olimpia Gobbi, visitò il Montani.

Fu così scelta la Società Sissa Medialab di Trieste, esperta nella divulgazione a carattere scientifico,  per il progetto, gli allestimenti, per una attenta ricognizione degli spazi, degli strumenti e dei documenti,  e per le dimostrazioni didattiche  rivolte al pubblico.
 Ricordo in particolare la prof.ssa Paola Rodari (nel 2021 ne è la Presidente) che coordinava l’equipe, per le sue profonde conoscenze nel campo della comunicazione pubblica della scienza e in particolare nella progettazione e realizzazione di mostre e musei della scienza e della tecnologia.
La Rodari conserva  piacevoli ricordi della permanenza a Fermo, per l’entusiasmo e la passione con cui svolse l’incarico  nei luoghi ricchi di storia e suggestivi come il Triennio e le  Antiche Officine.
Il progetto fu affidato all’architetto Giovanni Panizon  che ha una vastissima esperienza  nel campo, come si può vedere nel sito:

https://www.giovanniandreapanizon.it/ .

In particolare si veda il link:

https://www.giovanniandreapanizon.it/project/m-i-t-i-museo-della-innovazione-e-della-tecnologia-industriale-a-fermo/

I disegni qui riportati sono parte del progetto e sono pubblicati col permesso sia della prof.ssa Paola Rodari, sia dell’arch. Giovanni Panizon.
Il gruppo di Trieste soggiornò a lungo a Fermo per studiare attentamente gli aspetti dei luoghi e la loro storia.

 Paola Rodari ha anche coniato il nome M.I.T.I., per il Museo, legando un acronimo con il nomignolo ITI dato usualmente al Montani: Museo dell’Innovazione e della Tecnica Industriale.

Ho riportato una foto nella quale si vede bene che il  nomignolo ITI  ha ispirato i progettisti del Biennio, aperto nell’anno scolastico 1963/64.

Nel novembre del 2005 fui invitato dal Direttore Generale  Fiorenzo Galli, su segnalazione del  Dirigente dott. Salvatore Sutera, al Museo Nazionale  della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano per partecipare ad uno Workshop “La catalogazione del patrimonio scientifico e tecnologico”.  
Per gli “esempi di valorizzazione di collezioni di istituti scolastici” c’eravamo: Loredana Mattalia del Liceo “A. Volta” di Como;  Marco Zulian, Collegio San Francesco P. B. di Lodi; ed io che dovevo illustrare il patrimonio tecnico scientifico del Montani e poi collaborare ad alcune loro iniziative didattiche.
Allo workshop intervennero, oltre a Salvatore Sutera, Laura Ronzon e Vincenzo Iannone, membri del Museo organizzatore, i seguenti esperti:
Flavia Ferrante dell’Istituto Centrale per il Catalogo (ICCD), Roma.
Paolo Brenni, CNR.
Pasquale Tucci, Istituto di Fisica Generale e Applicata, Università degli Studi di Milano.
Paolo Castellani, ICCD.
Mara Miniati e Iolanda Roffo, Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze.
Enzo Minervini, Sistema Informativo Regionale Beni Culturali (SIRBEC), Regione Lombardia.

Restai sorpreso dalla affabilità di esperti di tale livello, che furono ben lieti nel darmi, negli anni che seguirono, consigli e informazioni.

Salvatore Sutera mi inviò una lettera che conservo tuttora.
Paolo Brenni mi regalò bellissimi cataloghi di strumenti di cui è l’autore, e i seguito mi diede preziosi consigli su alcuni strumenti della collezione del Montani, riportati nel sito.
Pasquale Tucci, come gli altri, restò in contatto con me via e.mail.
Mara Miniati venne addirittura a Fermo, su mio invito e in via ufficiale dell’Istituto, per partecipare ad una Giornata della Scienza – Premio “Mario Guidone” presso il Montani; il suo intervento incantò il pubblico.
Nel 2008-2009 la Facoltà dei Beni Culturali, Corso di Laurea Magistrale, dell’Università di Macerata, con sede a Fermo, su indicazione del prof. ing. Giuseppe Calcinaro,  mi chiamò per tenere un breve corso sul “Laboratorio di valorizzazione del patrimonio scientifico e tecnico delle Marche”.

Ho ricordato tutto ciò per documentare il risveglio tangibile dell’attenzione verso la valorizzazione degli strumenti antichi avvenuto in quegli anni.

Nel 2009 divenne operativa la Provincia di Fermo che si assunse il compito di costruire il Museo MITI attuale e questi avvenimenti sono, tutto sommato, recenti.
Il MITI è stato inaugurato il 22 dicembre del 2012.

Chi desidera informazioni al riguardo può andare al link “Museo MITI”, che si trova nel sito dell’ITT G. e M. Montani nell’elenco a destra;  può inoltre visitare il link

http://www.breschistudio.com/project/allestimento-museo-dellarcheologia-industriale/.
del sito Breschi Studio.
 Il mio ringraziamento va a Settimio Virgili, per la gentile collaborazione ed i preziosi suggerimenti nella stesura di questo articolo.
Ringrazio Paola Rodari, Giovanni Panizon e Olimpia Gobbi.

Le foto del MITI sono di Claudio Profumieri che ringrazio.

Per ingrandire le immagini cliccare su di esse col tasto destro del mouse e scegliere tra le opzioni.

Appendice documentaria e note

(1) Riporto qui ampi stralci della bozza di delibera scritta da Ettore Fedeli e Mario Guidone.

Signori Consiglieri,
l’idea di istituire un museo per documentare il ruolo svolto dal Montani, istituto primogenito in Italia, è stata più volte avanzata e dibattuta dal nostro Consiglio di Istituto.
Oggi sembrano essere maturate le condizioni per realizzare questa generosa e legittima aspirazione della nostra Scuola e dell’intera comunità cittadina.
La consapevolezza della enorme importanza storica e culturale del patrimonio tecnico-scientifico d’Italia comincia, infatti, a produrre iniziative concrete per la sua tutela e valorizzazione.
Con la C. M. del 12 gennaio 1989, avente per oggetto la  “Ricognizione del materiale archivistico di rilevanza storico-scientifica esistente presso Istituti Tecnici, Licei Scientifici ed Istituti Magistrali”, il Ministero della Pubblica Istruzione ha avviato nelle scuole una prima fase di censimento del patrimonio esistente, in vista della predisposizione di un progetto globale avente come fine ultimo “non soltanto una migliore conservazione materiale, pur indispensabile, della documentazione, ma il suo recupero per sempre più diffuse esigenze di ricerca, e quindi la sua fruibilità”.
Successivamente il Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica ha predisposto un Progetto Finalizzato, presentato dal prof. Giorgio Dragoni al Convegno tenuto a Pavia dall’11 al 15 settembre 1989, al quale hanno partecipato i proff. Mario Guidone ed Ettore Fedeli in qualità di membri  del GNSF (Gruppo Nazionale di Storia della Fisica) del CNR-Unità di Bologna.
Il prof. Dragoni, presidente del GNSF del CNR, membro del Comitato per la Tutela e la Diffusione della Cultura Scientifica e Storico-Scientifica insediato all’uopo dal Ministro Ruberti, si è detto disponibile per una ricognizione del materiale tecnico-scientifico della nostra scuola, una volta attivate le prime operazioni di catalogazione e restauro conservativo e funzionale. Una prima realizzazione del progetto si è mostrata nel Convegno tenuto a Bologna il 10-11 marzo 1990 sul tema  “Una realtà straordinaria. Il Patrimonio Storico Scientifico Italiano”.
 In quel Convegno studiosi e ricercatori provenienti dalle principali Università italiane hanno riferito su studi, ricerche, censimenti, catalogazione, informatizzazione del patrimonio esistente.
La prossima iniziativa promossa dal Comitato per la Tutela e la Diffusione della Cultura Scientifica e Storico-Scientifica del MURST sarà denominata SETTIMANA DEI MUSEI SCIENTIFICI e si svolgerà dal 10 al 15 dicembre 1990 a Roma e, simultaneamente, nelle sedi locali in grado di attivare manifestazioni complementari (Milano: Brera, Pavia, Firenze, Bologna, Napoli, etc.) .
Si tratta di una grande iniziativa di carattere nazionale e di forte richiamo anche a livello internazionale, con iniziative locali in tutte le Sedi che siano in grado di attivare manifestazioni specifiche. Essa ha lo scopo di focalizzare l’opinione pubblica sulle problematiche del patrimonio storico scientifico e di favorire il reperimento di fondi presso Enti e Ditte pubbliche e private, oltre a quelli già stanziati dai competenti ministeri.
Il “Montani” con la sua tradizione, il suo patrimonio tecnico-scientifico e le sue potenzialità operative possiede tutti i requisiti per partecipare, attraverso il locale gruppo GNSF del CNR con pieno diritto all’iniziativa, sia inviando materiali significativi alla Mostra Nazionale documentando la sua primogenitura, sia, soprattutto, dando il via alla istituzione di un proprio Museo Tecnico-Scientifico.
Tale Museo garantirebbe non solo la conservazione di un inestimabile patrimonio di strumenti, ma una nuova irradiazione di quella cultura politecnica che è già pervenuta, nel passato, a industrie italiane e straniere.

 (2) Verbale n° 211 del 05/07/1990

Approvazione istituzione di un museo tecnico scientifico nella Scuola. Il Presidente (Iobbi Mariano) legge la bozza di delibera approntata; si propone di ubicare i locali nei sotterranei della scuola. La problematica viene illustrata dal prof. Fedeli che mette in risalto le possibilità che si aprono e gli eventuali benefici della proposta (gite d’istruzione, materiali reperibili, facilità di approntamento del materiale). Calcinaro esprime perplessità in merito ai tempi di realizzazione, una volta assunta la delibera nella quale la prima scadenza è fissata al 15/12/1990. Propone un comitato “ad hoc” composto dai rappresentanti delle amministrazioni locali e del “Montani”. Luciani: dare disponibilità dei locali e dei materiali ed acquisire il deliberato dell’Ente Locale. Esce il cons. Cordella. Pucci Sisti: “operare senza porsi eccessivi problemi”. Panfili: utilizzare i locali della scuola e nel contempo iniziare il lavoro di sistemazione con il relativo progetto. Viene proposto il Comitato: Serdoz, Aragusta, Maranesi, Preside, Raccichini, Concetti, Fedeli, Guidone, Presidente del Consiglio, Luciani e quanti altri si rendessero disponibili. Approvato all’unanimità.
A questo farà seguito la seduta consiliare del 23/08/1990, in cui, in seguito alla partecipazione di Mario Guidone ed Ettore Fedeli, in qualità di membri del Gruppo locale del GNSF (gruppo nazionale di storia della fisica) del CNR, ad un convegno tenuto a Pavia sul Progetto Finalizzato, si delibera di inviare parte degli strumenti alla Mostra Nazionale che si terrà in dicembre (1990) a Roma.

(3)  Estratto del Verbale  del 23/08/1990   pag. 108-109

Ipotesi di ricognizione del materiale tecnico scientifico della Scuola, effettuabile dal prof. Dragoni presidente del GNSF del CNR, membro del Comitato per la Tutela e la Diffusione della Cultura Scientifica e Storico-Scientifica, nominato dal ministro Ruberti.
Mario Guidone ed Ettore Fedeli (in qualità di membri del GNSF) partecipano al Convegno tenuto a Pavia in cui il Ministero dell’Università e della Ricerca (M.U.R.S.T.) ha predisposto  un progetto finalizzato.
Il Montani invia parte degli strumenti alla Mostra Nazionale, dando il via all’Istituzione del proprio Museo.

(4) Riporto qui l’elenco inerente all’invito all’Istituto a trasmettere la documentazione degli atti di tutela:
– Elenco generale degli strumenti e delle attrezzature; – Relazione sulle singole  apparecchiature sotto il profilo Storico, Tecnico e Scientifico;- Documentazione fotografica; Planimetria catastale dei laboratori, delle officine e Dell’Istituto Montani;- Estratto di mappa comprendente il mappale relativo all’edificio quelli ad esso circostanti per un raggio di almeno m. 100 con chiaramente indicati i numeri di mappa;- Certificazione catastale relativa alle Ditte proprietarie dell’immobile di cui trattasi con relativa residenza e codice fiscale o partita I.V.A.;- Esauriente documentazione fotografica (n. 2 copie) sia degli interni che degli esterni dell’immobile;-Relazione storico-artistica ed eventuale materiale bibliografico o d’archivio sull’edificio.
[N.d.R.: chi ha redatto l’invito probabilmente ignora cosa comporta soddisfare la seconda richiesta: ogni strumento antico richiede settimane di ricerche solo per una corretta descrizione storico-scientifica].

(5) La seconda edizione, su iniziativa della Dirigente Prof.ssa Margherita Bonanni, è stata data in stampa nel 2018.