Telefono di Bell

           Telefono di Bell
Nell`inventario D del 1937 n° 436 è classificato come “magnete da telefono”.
Nell`inventario del 1906 al n° 618 si trova un “telefono di Bell da dimostrazione” che forse, per i particolari costruttivi, è questo esemplare.
  L. Graetz nel 1907 scriveva: «Il telefono, che in pochissimo tempo seppe conquistare un posto così importante nei mezzi di comunicazione, è uno degli apparecchi più geniali conosciuti dalla fisica, tanto più che esso si fonda nella sua semplicissima costruzione, su leggi naturali già note da molto tempo».

   La seguente descrizione, lievemente mutata, è ancora di Graetz: «Il telefono di Graham Bell è costruito nel seguente modo: la sbarretta magnetizzata è avvolta a un estremo da una spirale di filo sottilissimo. Assai vicino a essa, senza però toccarla, vi è una sottile lastrina di ferro dolce, fissata lungo il suo bordo al legno. Il coperchio ha una apertura che lascia libera la parte centrale della lastrina di ferro, in modo che di fronte ad essa sia possibile parlare e cantare».
 Il suono pone in vibrazione la lamina e questo provoca una variazione del campo magnetico inducendo nella bobina una corrente, il cui andamento segue, con una certa fedeltà in frequenza e intensità, quello del suono stesso. In questo modo funziona da microfono.

 Se esso viene collegato a breve distanza ad uno identico nella fattura, la corrente generata dal microfono va a circolare nella bobina del secondo facendone variare il campo magnetico.
La lamina del secondo viene attratta o respinta più o meno fortemente, a seconda della corrente, e in tal modo la vibrazione prodotta restituisce il suono, ovviamente di potenza attenuata dalla linea.
Il secondo telefono funge da ricevitore.
Dunque, essendo uguali, il microfono può diventare ricevitore e viceversa senza nessuna mutazione circuitale; basta alternare il parlare all`ascolto.
Inoltre è ovvio che una tale coppia può essere utilizzata per brevi distanze, se non si provvede con un qualche apparato di amplificazione.
Infatti il telefono di Bell, usato come microfono, genera delle correnti troppo deboli e insufficienti per comunicazioni a distanza, richiedendo  il silenzio nell`ambiente di ricezione.
 L`involucro di legno di questo esemplare è apribile per mostrare il suo interno, come si vede nella seconda foto.
  Nota: nel 2002 il Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto la priorità dell`invenzione del telefono ad Antonio Meucci (1808- 1889).
Qualcuno sostiene che l’invenzione sia da attribuire ad Innocenzo Manzetti (1806 – 1877).
Bibliografia.
L. Graetz, L`elettricità e le sue applicazioni, Vallardi, Milano 1907.
A. Funaro e R. Pitoni, Corso di fisica e chimica, R. Giusti, Livorno 1907.
O. Murani, Trattato elementare di fisica, U. Hoepli, Milano 1931.
L. Segalin, Fisica sperimentale, G B Paravia & C., Torino 1933.
A. Parazzoli, Lezioni elementari di elettricità industriale, Vol. II, L`elettricista, Roma 1911.
R. Ferrini, Recenti progressi nelle applicazioni dell`elettricità, U. Hoepli, Milano 1884.
 Le due figure sono tratte da L. Graetz, Die Elektrizität und ihre Anwedungen, Verlag von J. Engelhorn, Stuttgart, 1906, pag. 606.
 Foto di Federico Balilli, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
Per ingrandire le immagini cliccare su di esse col tasto destro del mouse e scegliere tra le opzioni.

 

 

 

 

 

 

Componenti di un amperometro elettrodinamico della Allocchio Bacchini & C. Milano

Componenti di un amperometro elettrodinamico della Allocchio Bacchini & C. Milano, in cassetta a giorno.
L`oggetto non è rinvenibile negli inventari d`epoca.
Se si azzarda l`ipotesi che questo sia stato acquistato insieme ad un voltmetro della stessa ditta, unico indizio è una foto datata da mano ignota 1941, nella quale la cassetta appare appesa alla parete di un laboratorio adibito a misure elettriche.
La foto è visibile nella sezione “Immagini d’epoca” di questo sito.
L`equipaggio è del tipo elettrodinamico (come è scritto a sinistra in basso) con due bobine: una mobile imperniata entro il campo di una fissa. Le bobine sono collegate in serie e percorse dalla stessa corrente, ne consegue che quella mobile tende a disporsi parallelamente all`avvolgimento fisso, per allineare il proprio campo magnetico nella direzione del campo di quest`ultimo. L`azione elettrodinamica produce una coppia proporzionale al quadrato della corrente.
La bobina mobile è imperniata su un alberino che porta l`indice dello strumento.
Attorno al semiasse superiore vi sono due molle a spirale che servono sia a produrre la coppia antagonista, sia all`alimentazione della bobina stessa.

Il vantaggio dell`amperometro elettrodinamico rispetto ad altri amperometri era che esso è adatto a misurare anche correnti alternate in quanto le direzioni dei campi dei due avvolgimenti si invertono in fase e questo anticamente era il loro pregio, poiché per misure in C. C. si preferivano gli strumenti elettromagnetici.
A volte nel semiasse inferiore vi era collegato un dispositivo di smorzamento ad aria che si può vedere consultando schede riguardanti altri strumenti del Museo Virtuale e che in questa cassetta non è presente. È ovvio che l`oggetto qui mostrato serviva per una dettagliata spiegazione della funzione di ogni componente.
Bibliografia: L. Olivieri ed E. Ravelli, Elettrotecnica – Misure Elettriche, Vol. III, CEDAM, Padova 1962, pag. 137 e segg. .
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo provvisorio di Fabio Panfili.
Per ingrandire le immagini cliccare su di esse col tasto destro del mouse e scegliere tra le opzioni.

 

 

 

Dispositivo con relay Ward Leonard PEL10 N° A 4272

   Dispositivo con relè Ward Leonard PEL10 N° A 4272.
Non rinvenibile negli inventari, risale presumibilmente a fine Ottocento o al primo Novecento.
Forse era associato al reostato Ward Leonard HA180.
Una targhetta, visibile in una foto, reca le seguenti scritte: “Patented Ward Leonard Rheostat Type PEL10 NO. A 4272 Volts 10AC Amps. 10 Ohms … Ward Leonard Electric Co. Mount Vernon, N.Y. U.S.A.”.
Il relè col dispositivo, ritrovato nel giugno del 2014, è ancora oggetto di indagini riguardanti il suo uso e il suo funzionamento.
Per ora si è visto che il relais percorso da corrente trattiene, mediante un alberino inserito in una scanalatura e per mezzo di un sistema di leve e molle, un interruttore nella posizione di conduzione.
Non appena la corrente nel relais cessa o si abbassa sotto un valore prefissato, rilascia l`alberino: il sezionatore scatta e interrompe la corrente in un altro circuito.
Nel frontespizio del “Bulletin 63 Revised March, 1926” si possono osservare alcune resistenze della Ward Leonard che hanno una certa somiglianza con quella montata sul nostro esemplare, il cui valore è di circa 355 Ω. Esso reca fra le altre le scritte: “Resistance specialists for thirty years” e ancora: “Ward Leonard Vitrohm (vitreous enamelled) resistor units” e sotto la figura: “Various sizes, mountings and terminals, Vitrohm Resistor Units”.
E ancora nel frontespizio della “Circular 507 Revised December, 1926”
si legge: “Vitrohm Resistors for Radio” e vi è una resistenza molto simile a quella del relè.
L`ing. C. Profumieri, con la consueta perizia, ha ridato al dispositivo il suo aspetto originario.
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
Per ingrandire le immagini cliccare su di esse col tasto destro del mouse e scegliere tra le opzioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antica lampada a incandescenza a filamento di carbone 1ª parte

  Antica lampada a incandescenza a filamento di carbone, prima parte.
Nell’Inventario del 1912 al n° 85 di pag. 7 si legge: “Lampade ad incandescenza”.

Il Montani possiede ancora molte antiche lampade a filamento che erano usate nei primi decenni del Novecento nel Laboratorio di Elettrotecnica.
Questi esemplari non sono di facile datazione; la loro tensione di esercizio è di 110-125 V.


Nel “Catalog M Physical & Chemical Apparatus May 1912, Central Scientific Company. Chicago. U.S.A. , rinvenibile all’indirizzo:
https://www.sil.si.edu/DigitalCollections/trade-literature/scientific-instruments/pdf/sil14-51680.pdf ,
a pag. 186 si trova la figura 2291 che qui riportiamo con la scritta: “Incandescent Lamps, 110 volt, carbon filament, Edison base, …”.
Il catalogo risale al maggio del 1912 e all’epoca si costruivano lampade col filamento di tungsteno che erano circa tre volte più costose di quelle a filamento di carbone, ma duravano molto di più ed erano più efficienti come luminosità (rapporto lumen/watt) per la loro più alta temperatura di esercizio. Mille ore invece delle 600 del filamento a carbone.
Sulla base dell’esemplare qui presentato si legge: “110 – 50 17”. Cioè: 110 V; 50 candele; il numero 17 si riferisce al tipo di attacco, ma corrisponde al moderno E 27.
Noi abbiamo alimentato la lampada fino a 100 V e, come si vede, è funzionante.
Le foto sono state fatte dunque con una tensione di 90 V.
La resistenza a freddo (temperatura ambiente circa 28 °C) del filamento è 170,5 ohm, con una alimentazione di 90,0 V – 50 Hz ; la corrente assorbita dalla lampada è di 1,0 A. Dunque a caldo la resistenza è diminuita passando da 170 a 90 Ω!
Le misure sono state eseguite dall’Ing. Claudio Profumieri.
Siccome il coefficiente resistivo di temperatura per molti tipi di carbonio è negativo, mentre quello dei metalli è positivo, le misure provano che il filamento di questa lampada è di carbonio. Dunque appena viene accesa offre una resistenza più alta che a regime e la corrente iniziale è minore che non a regime di funzionamento.
All’interno del bulbo di vetro esiste un buon vuoto. L’annerimento del vetro è dovuto all’evaporazione del carbone avvenuta durante l’uso.
La lampada di Edison a filamento di carbone forniva 16 candele per 50 W, cioè 0,32 cd/W. Un filamento al tungsteno forniva 40 cd per 40 W, cioè 1 cd/W.
La sua efficienza luminosa è comunque bassa rispetto ad una lampada ad incandescenza più moderna con analoghe caratteristiche poiché la temperatura del filamento è relativamente minore.
Quando Graetz pubblicò il suo libro citato in bibliografia nel 1907 scrisse che la Osram produceva già lampade a filamento di tungsteno di cui però egli ignorava i particolari costruttivi. Graetz cita la lampada all’osmio di Auer von Welsbach ( l’osmio fonde a 3030 °C) e la lampada al tantalio (3000 °C) con un filamento di 0,7 metri di lunghezza costruita dalla Siemens & Halske: entrambe troppo costose, non ebbero mercato. Una lampada a incandescenza più moderna (oggi non sono più in vendita) produce luce per il riscaldamento del filamento di tungsteno (che fonde a 3387 °C) ottenuto con il passaggio in esso di corrente elettrica. Il filamento è immerso in un gas inerte, in genere argon, per ostacolare la sua sublimazione testimoniata dall’annerimento del bulbo di vetro.

A causa della bassa temperatura di esercizio di circa 2400 °C (bassa considerando lo spettro di emissione confrontato con la sensibilità dell’occhio umano) solo il 12-17 % dell’energia è emessa come luce visibile (lumen/watt). La parte restante viene dispersa molto nell’infrarosso e poco nell’ultravioletto e riscalda sia il gas sia il vetro e, per conduzione, viene dissipata attraverso i reofori che sostengono il filamento. Dunque il suo rendimento luminoso è molto basso. In gergo si dice che la luce emessa da una lampada può essere “calda o fredda”, ma se si considera la temperatura di colore (cioè la tonalità che avrebbe la luce emessa da un corpo nero ideale ad un a temperatura espressa in Kelvin) si nota che la luce “calda” è spostata verso il rosso e dunque emessa da un oggetto a temperatura minore di quello che emette luce “fredda”: la sensazione è dovuta alla percezione visiva dell’occhio umano.
Per confrontare lo spettro di emissione di una lampada ad incandescenza a temperatura di 3000 K con quello solare entrambi riferiti allo spettro del visibile si veda la figura.
La potenza elettrica insomma non è un indice immediato del flusso luminoso emesso, espresso in lumen, che è determinato dal rapporto tra l’energia luminosa visibile emessa e l’energia elettrica assorbita.
Per comprendere il funzionamento della lampada a filamento di tungsteno si tenga presente che all’accensione il filamento è freddo e la sua resistenza è molto minore che alla temperatura di esercizio: si misuri con un ohmmetro la resistenza a freddo del filamento e la si confronti con il rapporto R = V²/P dove V è la tensione (220 V) di esercizio e P la potenza dichiarata (ad esempio 100 W). Questo spiega perché spesso la lampada brucia all’accensione: la sublimazione del tungsteno nel tempo assottiglia il filamento che a freddo tende a fondere per l’improvvisa forte corrente (circa dieci volte quella di esercizio).
Dunque all’inizio il filamento è percorso da una forte corrente che lo riscalda rapidamente e nel contempo l’aumento della sua resistenza fa diminuire la corrente: infine si raggiunge la temperatura di esercizio a causa dell’equilibrio dinamico tra l’energia elettrica assorbita e il calore dissipato che comporta un valore preciso della resistenza.
L’attacco, detto anche virola, può essere a vite o a baionetta, anche se nella storia vi sono state altre soluzioni. La forma più comune per uso domestico è a vite e con diametro di 27 mm, detto E 27 dove la lettera E sta per Edison.
Alcuni Paesi usano l’attacco a baionetta con diametro di 22 mm, chiamato B 22 dove B sta per Bayonet.
Nella seconda parte ci soffermeremo, anche se sinteticamente, sulla storia della lampada ad incandescenza a filamento di carbone.
Nella terza parte ci soffermeremo su alcuni particolari costruttivi.
  Per consultare le altre due schede scrivere: “filamento” su Cerca.
   Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
Per ingrandire le immagini cliccare su di esse col tasto destro del mouse e scegliere tra le opzioni.

 

 

 

 

Lampada ad incandescenza da 1000 W


   Lampada ad incandescenza da 1000 W.
La sua potenza potrebbe suggerire che fosse la sorgente luminosa di un proiettore ma lo ignoriamo, inoltre non ne conosciamo neppure l’età.
Però ci ha colpito il fatto che qualcuno si è preoccupato di incollarne il bulbo di vetro dopo una sua evidente rottura anche se il suo filamento era rotto ed era ormai inutilizzabile.
La base di attacco è piuttosto insolita e ci invita a continuare le ricerche.
Su di essa si riesce a fatica a leggere: “2 – 57 (o 2 – 37) SIP 1000 W 160 V”.
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni e testo di Fabio Panfili.
Per ingrandire le immagini cliccare su di esse col tasto destro del mouse e scegliere tra le opzioni.