Oscillatore a tre scintille di Righi 3ª parte

     Oscillatore a tre scintille di Righi. Terza parte.
Nell’inventario del 1906 a pag. 164, n° 651, si legge “Telegrafo Marconi (trasmettitore di Righi e stazione ricevitrice con coherer relais, Morse e pile). Condizioni buone. ₤ 460”. Destinato al Gabinetto di Elettrotecnica.
Abbiamo già accennato nella seconda parte che Righi, almeno in Italia fu il più importante personaggio nel proseguire e perfezionare i lavori sperimentali che H. Hertz, svolse tra il 1886 e il 1889.
H. Hertz era una mirabile sintesi di fisico teorico e sperimentale; riuscì a semplificare le venti equazioni di Maxwell sulle onde elettromagnetiche portandole a nove, introdusse nuovi concetti come il Potenziale che porta il suo nome e per primo provò l’esistenza delle onde elettromagnetiche e delle loro proprietà del tutto analoghe a quelle della luce (H. Lorentz poi ridusse le equazioni alle 4 che ci sono note).
Ricordiamo sempre in proposito 
che le o. e. m. sono un modello utilissimo, ma oggi l’elettrodinamica quantistica ha fornito una diversa interpretazione della  loro natura.
Come l’oscillatore di Righi, l’oscillatore di Hertz era aperto ed era formato da due cilindri di ottone allineati C e C’, del diametro di 3 cm e lunghi 13 cm, separati da uno spinterometro (le due sferette A A’ del diametro di 4 cm), vedi le figure 662 e 663.
Esso venne poi trasformato aggiungendo ai lati le due sfere A e A’ di 30 cm di diametro, distanti circa 1,5 m, mentre i fili conduttori a e a’ avevano un diametro di 5 mm e terminavano nello spinterogeno con le sferette di 3 cm di diametro e distanti 75 mm. Quando scoccavano le scintille esso diveniva un oscillatore in serie a capacità ed induttanza distribuite ed Hertz raggiunse nei suoi tentativi lunghezze d’onda non inferiori a 66 cm (circa 454 MHz).

H. Hertz dapprima al posto delle due sfere laterali mise delle piastre, ma le lunghezze d’onda erano più grandi (vedi la figura qui sopra). Per ridurle bisognava ridurre sia l`induttanza sia la capacità. Il dipolo era alimentato da un rocchetto di Ruhmkorff e le scintille diventavano conduttori oscillanti smorzati. Le cariche oscillanti producevano onde elettromagnetiche che si diffondevano nello spazio. Le lunghezze d’onda relativamente corte permettevano la loro misura nell’ambito di un laboratorio e permettevano di svolgere gli esperimenti sulla riflessione, rifrazione, interferenza, diffrazione, polarizzazione e sulle onde stazionarie. Insomma permettevano di mostrare che le onde elettromagnetiche si comportavano come la luce.

In   figura 707 
è mostrato il dispositivo con il quale Hertz produceva onde stazionarie (non si vede il riflettore posto sulla sinistra) che gli permisero di misurare le lunghezze delle onde prodotte. Non solo. Un suo aiutante gli suggerì che con i suoi apparecchi avrebbe potuto trasmettere segnali intellegibili a distanza e che si poteva costruire un telegrafo senza fili, ma Hertz pensava che non ci fosse un modo semplice per trasdurre le alte frequenze delle o.e.m. alle frequenze acustiche della voce e scoraggiò l’idea.
Righi a quanto pare non era neppure interessato al problema e si concentrò esclusivamente sul perfezionamento dei trasmettitori e dei ricevitori per ottenere risultati precisi a frequenze decisamente alte.

Nelle figure 53, 54 e 55  si vede l’uso che Hertz fece degli specchi cilindrici a sezione parabolica: nella figura 53 si vede l’oscillatore nel fuoco dello specchio, alimentato da un rocchetto di Ruhmkorff.
Q
uesti tipi di specchi furono usati sia da Righi, come si è visto nella seconda parte, sia da Marconi.
Vogliamo ricordare che durante questi esprimenti Hertz nel 1887, con esperimenti ingegnosi e attenti, scoprì l’effetto fotoelettrico, il quale poi nel 1888 fu studiato da Righi e spiegato nel 1905 da A. Einstein.
Il professor Righi riuscì a generare onde di lunghezza 1,7 cm, iniziando gli esperimenti nel 1893 e continuando i lavori intrapresi da Hertz (morto nel 1894 a soli 36 anni), ma a frequenze molto più alte.
Mostrò di nuovo dunque la sorprendente identità tra le onde elettromagnetiche e quelle luminose, come era stato previsto dalla teoria di J. C. Maxwell.
I dispositivi di Righi erano costruiti per funzionare a distanze non superiori ai 25 metri, adatti per gli esperimenti nel corridoio più lungo dell`Istituto di Fisica, allora sito in via Zamboni a Bologna. Anche Righi, preso dai suoi esperimenti, non vide la possibilità di comunicare a distanza.
Bisognava aspettare l’audace idea di Marconi.
Infatti è noto luso che il giovane G. Marconi ( 1874 – 1937) fece dell’oscillatore di Righi. Pare ormai accertato che dall’autunno del 1891 a Livorno seguì per un anno le lezioni teorico pratiche del prof. V. Rosa di fisica e chimica, con il quale forse iniziò a fare esperimenti con il coherer. È accertato storicamente che a Bologna assistette sia a lezioni sia ad esperimenti di Righi, con il quale ebbe, giovanissimo, scambi di opinioni ed epistolari.
Marconi ebbe l’idea del tutto nuova, non di fare solo esperimenti, ma di trasmettere segnali intellegibili.
Vi sono in proposito innumerevoli dispute sia sul fatto che Marconi inizialmente non abbia inventato nessun apparecchio, ma abbia assemblato con sapienza oggetti già noti; sia su questioni di priorità nelle quali si citano a ragione D. Hughes, Feddersen, Tesla, e Lodge. Questultimo per la sintonia. Non certo Popov che aveva ben ragione di affermare che il suo solo ricevitore a coherer fosse più efficiente.
Ma è indubbio che Marconi avesse come scopo precipuo la trasmissione a distanza di messaggi.
Nella figura senza numero si vede la riproduzione dal Brit. Pat. Spec. N° 12039, giugno 1896: a sinistra la vista di lato dellantenna cilindrica a sezione parabolica nel cui fuoco è posto un oscillatore di Righi come quello che si vede nella foto col giovane Marconi; a destra la vista frontale dello stesso trasmettitore alla lunghezza donda di 25 cm.

La figura 109  mostra il trasmettitore collegato ad unantenna piatta e a terra, mentre in figura 110 il ricevitore con il coherer collegato anch’esso all’antenna e a terra. Con un dispositivo molto simile fece il primo esperimento dalla “stanza dei bachi” a Pontecchio a fine del 1894; le lastre aumentavano la capacità dell’oscillatore e servivano ad ottenere onde lunghe con le quali successivamente superò una collinetta; ma nel frattempo lavorava anche con le onde corte. Infatti i suoi primi brevetti del 1896 riguardarono entrambe le soluzioni.
Non è questa la sede per parlare di questioni di priorità, sulle quali sono stati scritti numerosissimi libri, saggi e articoli. Vogliamo solo dire che Marconi riuscì a perfezionare tutti i dispositivi di cui venne a conoscenza per ottenere i migliori risultati possibili: basta confrontare la raffinatezza e la stabilità dei suoi coherer con quelli costruiti da altri nella stessa epoca, per averne una prova!

Per consultare le altre due parti scrivere “Righi” su Cerca. Si consiglia inoltre di leggere (come si è detto nella prima parte) un articolo in questo sito alla voce: “Il Montani nella storia; il coherer e un convegno del 1985” dove è descritto un apparato marconiano con soluzioni che sono perfezionamenti di quelle di Hertz e soprattutto di Righi.
Bibliografia:
A. Righi, B. Dessau, La Telegrafia senza Filo, N. Zanichelli, Bologna 1905.
A. Righi, Le Onde Hertziane, Il Nuovo Cimento, Serie V, Tomo I, Gennaio 1901.
V. J. Phillips, Hearly Radio Wave Detectors, Peter Peregrinus LTD, 1980.
Giorgio Dragoni, L’opera di Righi tra Calzecchi Onesti e Marconi, in La conquista della telegrafia senza fili, a cura di E. Fedeli e M. Guidone, Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1987.
La figura con Marconi da giovane con alla sua destra un oscillatore di Righi si trova sia nel testo precedente, sia sulla copertina del Giornale di Fisica N° 3, Vol. 14, del 1973.
G. Tabarroni, Bologna e la storia della radiazione, Lions Club Bologna, 1965.
H. J. Aitken, Syntony and Spark – The Origins of Radio, Princeton University Press, New Jersey 1985.
J. F. Ramsay, Microwave Antenna and Waveguide Techniques Before 1900, Proceedings of the IRE, Vol. 46, N° 2, February 1958, da cui sono tratte le figure 53, 54, 55.
Le figure 662 e 663 sono a pag. 526 e la figura 707 è a pag. 553 di G. Veroi, Elementi di Elettrotecnica, Vol. I, UTE, Torino 1905.
La figura senza numero con la schematizzazione di un esperimento di Hertz è a pag. 14-12  di AA. VV. PPC Progetto Fisica, Vol. B, Zanichelli, Bologna 1986.
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo a cura di Fabio Panfili.
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Pendolo di Waltenhofen R.I.T.I.N.


              The eddy current Pendulum.
Eddy currents are induced in conductors in the presence of changing magnetic fields. One of the first observations of eddy currents was made by Bachhoffner of London in 1837 in his design for an induction coil. He found that the coil was more effective when the solid iron core was replaced by a group of iron wires insulated from each other. All subsequent induction coil designs in the 19th century followed this practice. … The pendulum blade made of solid copper would quickly come to rest in the magnetic field; the alternate blade, with slots to break up the eddy currents, swings for a longer period of time.
(www.physics.kenion.edu/EarlyApparatus/Electricity/Eddy_Current_Pendulum.html).
                 Pendolo di Waltenhofen.
Questo tipo di pendolo fu inventato da Adalbert C. von Waltenhofen (1828-1914) verso il 1855.
I due esemplari nella prima foto sono stati costruiti al Montani e inventariati il 25/ 06/ 1943 al n° 1130; il terzo nella foto sotto il testo, risulta dall’inventario D del 1937 al n° 372.
Tutti recano la sigla R.I.T.I.N. (Regio Istituto Tecnico Industriale Nazionale), nome che l’Istituto Montani ebbe dal 1907 al 1935.
Pertanto si ritiene che essi siano stati costruiti molto prima di essere inventariati.
Il pendolo di Waltenhofen mostra gli effetti delle correnti parassite indotte (eddy currents), dette di Foucault.
Un pendolo di rame oscilla avanti e indietro tra i poli di un elettromagnete inattivo; ma non appena sorge il campo magnetico dovuto all’eccitazione dell’elettromagnete, il moto del pendolo viene subito arrestato.
L’elettromagnete è alimentato in corrente continua.
Vedi le figure.
Nel conduttore, che si muove in un campo magnetico non uniforme, si generano per induzione elettromagnetica delle correnti elettriche. Queste, per la legge di Lenz (basata sul principio di conservazione dell’energia), generano forze che tendono a contrastare le forze che muovono il conduttore, producendo un effetto frenante.
Nel caso del pendolo di Waltenhofen, l’energia potenziale gravitazionale iniziale, che possiede il pendolo quando viene allontanato dalla sua posizione di riposo, si trasforma in definitiva in energia termica per l’effetto Joule delle correnti elettriche indotte durante l’oscillazione.
Secondo L. Graetz: «… il fenomeno fu osservato per la prima volta da Gambey nel 1824: esso però fu spiegato solo più tardi da Arago in seguito alla scoperta dei fenomeni di induzione dovuta a Faraday».
Secondo alcuni autori, G. H. Bachhoffner (1810 – 1879) suggerì nel 1837 di sostituire il nucleo compatto all’interno di un solenoide con un fascio di fili di ferro isolati, per evitare le correnti parassite.

Questo fu fatto fino a che si trovò più pratico fabbricare i nuclei con lamine isolate. Infatti, se nel pendolo di Waltenhofen si sostituisce al conduttore compatto un conduttore che presenta fenditure come i denti di un pettine (vedi la figura 16-12), il suo moto dura molto più a lungo poiché le correnti di Foucault indotte sono molto più piccole e in parte si neutralizzano a vicenda essendo contigue e reciprocamente opposte.

Il disegno delle correnti parassite, realizzato da chi scrive, è approssimativo ed eccede per la sua simmetria, ma rende l’idea del loro andamento.
Un uso particolare delle correnti di Foucault si trova negli antichi galvanometri: per ottenere lo smorzamento degli aghi magnetici, questi si fanno ruotare sopra a dischi di rame, come nel galvanometro di Nobili esposto al Museo MITI.
I più sofisticati di quell’epoca hanno l’equipaggio mobile a forma di piccola campana magnetica che si muove dentro una sfera di rame cava, come nella bussola delle tangenti di Pouillet esposta al Museo MITI. Anche in molti strumenti da quadro si ricorreva al moto di dischi di alluminio immersi in campi di magneti permanenti, come si può vedere in questo sito.
Bibliografia.
La figura 16-12 è a pag. 16-7 di: R. P. Feynman, R. B. Leighton e M. Sands, The Feynman Lectures on Phisics, Vol. II, Addison-Wesley P. C., Massachusetts 1964.
L. Graetz, L’elettricità e le sue applicazioni, F. Vallardi Milano 1907.
B. Dessau, Manuale di Fisica, Vol. III S.E.L. Milano 1935. La figura 351 è a pag. 275 di : G. Veroi, Elementi di Eletrotecnica, vol I, U.T.E., Torino 1905, ed anche
nel G. Veroi, Corso di elettricità, Scuola di applicazione d`artiglieria e genio, Torino 1903.
Gomberto Veroi insegnò Elettrotecnica al Montani e ne fu direttore per un breve periodo dal 1908 in poi.
Si occupò anche dell’ampliamento delle officine.
La figura 3-541 è a pag 244 di:  L. Olivieri e E. Ravelli, Elettrotecnica Generale, Vol. I, CEDAM, Padova 1959.
Foto di Daniele Maiani e di Federico Balilli, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
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Voltmetro elettrodinamico S.E.B. mod. E/02 matr. N° 681079

Voltmetro elettrodinamico SEB mod. E/02, matr. N° 681079.
Il documento posto all`interno del coperchio reca la data del collaudo avvenuto il 27.10.1955.
Nell`inventario D del 1956 se ne trovano due ai numeri 999/1000 dove si legge: “Voltometro SEB 601079 – 80 Lab. Macch. Elettriche ₤ 60.000”. Dichiarati già in esistenza, differiscono da questo per il numero di matricola, che attribuiamo ad una svista dell`estensore.

Sul quadrante i simboli delle norme CEI dicono che lo strumento è del tipo elettrodinamico, va usato con quadrante orizzontale, funziona sia in C.C. sia in A.C., di classe 0,5 ed è stato collaudato ad una tensione di prova di 500 V; la portata fondo scala è di 3 V. In alto al centro si legge (sotto il marchio di fabbrica SEB): “Stabilimenti Elettrotecnici di Barlassina – Milano”; a sinistra in basso: “Mod. E/02 N° 681079”.

Su un`etichetta di alluminio posta sul retro si legge tra l`altro: “Portate 1,5 – 3 V”.

Ma più complete sono le informazioni che reca il foglio di collaudo posto all`interno del coperchio delle quali riportiamo solo le notizie più interessanti.
Quando la portata fondo scala (p. f. s.) è di 1,5 V la costante è di 0,01; quando la p. f. s. è di 3 V la costante è di 0,02. L`induttanza approssimativa a mezza scala è 0,0024 Henry; a fondo scala 0,0026 H. Per la portata di 1,5 V la resistenza è di 4,44 ohm; per la portata di 3 V la resistenza è di 8,88 ohm. Poi vi sono le correzioni per la frequenza e per la temperatura. La taratura è stata eseguita con cordoni 2; 0,008 ohm. L`errore percentuale è inferiore a 0,5 % della lettura di fondo scala con frequenza fino a 100 Hz. In fondo al foglio è riportato il grafico dell`errore in percentuale in funzione dei valori lungo la scala con portata 1,5 V in C.C. Nella collezione del Montani esistono numerosi strumenti elettrodinamici il cui funzionamento si basa sulle mutue azioni che nascono tra due circuiti percorsi da corrente elettrica.
Una bobina è fissa e produce un campo magnetico; l`altra, posta all`interno della prima, costituisce l`equipaggio mobile.
Notare la disuniformità della scala, che fino al centro ha un andamento simile a quello quadratico, ma poi le linee vanno infittendosi di nuovo verso il fondo scala: è evidente la sua costruzione empirica, con l`ausilio di strumenti campione.
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
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Voltmetro elettrodinamico Siemens & Halske N° 1989668

  Voltmetro elettrodinamico Siemens & Halske. Matricola N° 1989668.
Nell`inventario D del 1937 al n° 148 si legge: “Voltmetro da laboratorio, e. d. S. H. , 75 – 150 – 300 V – 150 div. N° N° 1989668 in cassetta ₤ 1300. Prima destinazione: Laboratorio di macchine Elettriche”.
Strumenti simili a questo e della stessa ditta vengono datati tra il 1910 e il 1930 in altre collezioni.
Di costruzione molto complessa, è del tipo elettrodinamico (cioè ha l`equipaggio mobile ruotante nel campo generato da una bobina fissa), come dice la sigla  “e. d.” nell`inventario.
Lo smorzamento ad aria è ottenuto mediante un braccetto, collegato con l’ago indicatore, che termina su un dischetto di metallo che si muove in un tunnel di forma a ciambella. Come si vede in alcune foto.
Le varie portate fondo scala si ottengono con grosse bobine poste nella parte inferiore dello strumento. Sulla targhetta superiore si legge: “75 V; 750 Ω; 150 V; 3000 Ω; 300 V 6000 Ω”.
La misura delle resistenze eseguita il 23 settembre del 2010 ha dato  i seguenti valori: 758 Ω; 3009 Ω: 6023 Ω.
L’ing. C. Profumieri, con  competenza e abilità, ha eseguito un lieve e necessario intervento sull’equipaggio mobile, dopo il quale il voltmetro è risultato di nuovo funzionante ma i valori delle sue misure non sono attendibili.
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
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Voltmetro elettrostatico Trüb, Taüber & Co. N° 471722

  Voltmetro elettrostatico Trüb, Täuber & Co S.A. Zurigo. N° di matricola 471722.
  Non è identificabile negli inventari, collaudato il 3 marzo del 1938.
  Lo strumento è in una cassettina di ambra e il quadrante è su bakelite. La sua capacità è di 22 pF a 600 V. Morsetti 0 al sistema mobile, isolati all`ebanite (rosso, nero). Morsetto 600 al sistema fisso, isolato all`ambra. Resistenza di protezione 500000 ohm al morsetto nero 0; 1000 ohm al morsetto rosso 0. La correzione dello zero si esegue al solito ruotando la vite in basso. Queste caratteristiche sono riportate all`interno del coperchio, come si vede nelle foto.
  Il voltmetro elettrostatico deriva dagli elettrometri, in particolare dal tipo Thomson, e la sua caratteristica peculiare è di assorbire pochissima corrente.
Esso infatti si può considerare un condensatore di piccolissima capacità e dunque in corrente continua assorbe solo una lievissima corrente iniziale di carica, mentre in corrente alternata ne assorbe continuamente ma sempre di valore estremamente piccolo.

Il suo funzionamento si basa sul potere attrattivo delle armature di un condensatore sia tra di loro che verso una lamina mobile, che può entrare tra queste.
Essa viene attratta verso l`interno da un “effetto marea” dovuto alla non uniformità del campo elettrico.
La coppia che fa ruotare la lamina mobile è proporzionale al quadrato della tensione applicata alle armature fisse sotto certe condizioni geometriche.
La coppia antagonista è data da molle a spirale.
Questo esemplare non è stato smontato da chi scrive per non comprometterne l`integrità, si presume comunque che il suo interno sia simile a quello riportato nel disegno.
  Bibliografia: L. Olivieri ed E. Ravelli, Elettrotecnica-Misure Elettriche, Vol. III, CEDAM, Padova 1962, da cui è tratta la figura.
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
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