Luxmetro S.E.B. Mod. ML/02 N° A24000

    Luxmetro S.E.B. Mod. ML/02, matr. N° A24000.
Non rinvenibile negli inventari, è stato collaudato dalla ditta il 30/11/1971. Costruito dagli Stabilimenti Elettrotecnici di Barlassina – Milano.
All`interno del coperchio si trova il foglio del collaudo che reca sia le caratteristiche di risposta spettrale della fotocellula (disegnata con una linea continua), confrontate con la sensibilità dei coni dell`occhio umano ai colori il cui massimo è sul giallo verde, cioè intorno ai 550 nm (disegnata con linea tratteggiata); sia le avvertenze sulla durata delle cellule, che riportiamo integralmente: «Durata delle cellule. – le cellule fotoelettriche hanno una durata praticamente illimitata e possono essere esposte anche alla luce diretta del sole senza che ne derivino inconvenienti. Non è però consigliabile lasciarle esposte a lungo direttamente ai raggi solari e conviene tenerle riparate dall`umidità».
«Sensibilità in % della cellula al selenio per i differenti colori dello spettro».
La cellula presenta una larghezza di banda più larga rispetto a quella dell`occhio, inoltre il suo picco è inferiore e risulta spostato sul valore di circa 575 nm.
Per chi esegue le misure questo fattore è importante ai fini della valutazione dell`illuminamento percepito dall`occhio.
La durata delle cellule non è “praticamente illimitata” poiché sono soggette nel tempo ad ossidazione e ad altri inconvenienti.
Il lux è l`unità di misura dell`illuminamento in luce visibile: un lux è il flusso luminoso di un lumen che attraversa in direzione perpendicolare un metro quadrato di superficie. Il lumen misura la quantità di luce nel visibile su una sfera unitaria (1 steradiante).
Purtroppo allo stato attuale, mentre lo strumento è perfettamente funzionante, la fotocellula non funziona.
Lo strumento è del tipo a bobina mobile immersa nel campo di un magnete fisso; va usato in posizione orizzontale, per corrente continua, tensione di prova 500 V. Sul quadrante vi sono due scale con portate rispettivamente 100 e 1000 lux. Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
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Antica lampada a incandescenza a filamento di carbone 2ª parte

   Antica lampada a incandescenza a filamento di carbone, seconda parte.
Nell’inventario del 1912 al n° 85 di pag. 7 si legge: “Lampade ad incandescenza”.
Il Montani oggi possiede ancora moltissime antiche lampade a filamento che erano usate nei primi decenni del Novecento nel Laboratorio di Elettrotecnica sia singole, sia in gruppi collegate o in parallelo o in serie o in serie-parallelo. Inoltre fanno parte della collezioni gruppi di lampade appena di più recente fabbricazione.
  La storia dell’invenzione della lampada a filamento è molto lunga e, al solito, con discusse questioni di priorità. Per quest’ultimo aspetto basti qui menzionare che nel 1897 A. Wilke e S. Pagliani sostenevano che Edison nel 1879 abbandonò i suoi tentativi con dei fili metallici quando seppe che due elettrotecnici americani, W. E. Sawyer e A. Man, avevano trovato un metodo semplice per preparare fili sottili di carbone.
Secondo uno studio di R. Friedel e P. Israel furono almeno 22 gli inventori che rivendicarono le priorità rispetto ad Edison, il quale era abile nell’acquistarne i brevetti o entrare in società con alcuni di essi.
Ma procediamo con un certo ordine riferendoci principalmente alla storia delle lampade a filamento di carbone senza la pretesa di essere esaustivi, tante sono le notizie in merito.
H. Davy (1802) per primo dimostrò che è possibile produrre luce con il passaggio di corrente in un filo conduttore (filamento di platino) ma esso brucia rapidamente in aria e all’epoca non era ancora possibile racchiuderlo in un involucro trasparente con aria rarefatta perché le pompe non producevano un vuoto sufficiente.
Solo dopo il 1865 H. Sprengel realizzò una pompa adatta che fu usata anche da Crookes per costruire i suoi famosi tubi.
Nel 1834 J. B. Lindsay presentò il suo sistema di illuminazione che utilizzava una lampada ad incandescenza.
Nel 1840, W. de la Rue chiuse un filo di platino in un tubo vuoto e lo fece percorrere da corrente elettrica.
Nel 1841, F. de Moleyns ottenne il primo brevetto per una lampada a filamento di platino.
Nel 1845, J. W. Starr ebbe un brevetto per la sua lampada a filamento di carbone.
Nel 1893 H. Göbel affermò (portandone le prove) di aver già progettato nel 1854 una lampada con un sottile filamento di bambù carbonizzato ad alta resistenza in alto vuoto.
Nel 1875 una lampada elettrica venne brevettata da H. Woodward.
Ma ora parliamo di due italiani: Cruto e Malignani. Alessandro Cruto nacque a Piossasco (TO) nel 1847 e morì a Torino nel 1908. Non seguì studi regolari, anche se studiò chimica a Torino, ma fu mosso piuttosto da una forte curiosità.
Spirito geniale di ricercatore, malgrado i modesti mezzi e la non grande cultura, si dedicò alla ricerca scientifica indirizzandosi a risolvere il problema della cristallizzazione del carbonio.
Nel settembre 1881 aveva realizzato una versione di successo di questi primi filamenti sintetici. La sua prima lampada aveva un fil
amento di 12 × 3 × 0,52 millimetri e diede una luce brillante, ma di bassa efficienza.
Il filamento Cruto veniva preparato per deposizione di grafite su un sottile filo di platino di 1/100 di mm in atmosfera di idrocarburi; volatilizzato il platino ad alta temperatura, rimaneva il filamento di grafite purissima.
Il filamento prodotto nel 1883 è di carbonio, ed è un sottilissimo tubicino interamente sintetico con caratteristiche controllate e variabili a piacere.
Cruto, come molti altri, si accorse ben presto che il prototipo di una lampada elettrica non è semplice da realizzarsi. Occorrono un buon soffiatore di vetro, una tecnica complessa per i reofori su cui saldare il filamento, la scelta del materiale dei reofori, una buona pompa per il vuoto ecc..
Con pochi mezzi riuscì ad impiantare ad Alpignano nel febbraio del 1882 una fabbrica di lampadine, la A. Cruto & Company, sviluppando tutti i metodi di produzione.
Cruto, a causa di problemi di gestione lasciò dapprima la direzione nel 1889, poi l’azienda nel 1893.
L’industria di Alpignano venne poi assorbita dalla Philips.
Il 16 maggio 1883 Piossasco fu la prima città d’Italia illuminata da lampade ad incandescenza.
Nello stesso anno la lampadina Cruto è stata esposta alla mostra di Monaco di Baviera.
Le sue lampadine furono vendute in Francia con il nome Systeme Cruto.
Un altro italiano del tutto trascurato dai numerosi storici della lampada a incandescenza è stato l’udinese Arturo Malignani (1865 – 1939); a lui si deve il decisivo contributo nella eliminazione dei gas residui all’interno del bulbo, secondo alcuni autori usando piccole quantità di eteri o altri idrocarburi, secondo altri usò il fosforo.
In ogni caso ottenne un vuoto molto migliore di quello realizzato da tutti gli altri, permettendo una maggiore durata del filamento.
Il 1 gennaio del 1889 Udine venne illuminata da 430 lampade a incandescenza del tipo Malignani.
L’invenzione venne brevettata nel 1894; la Edison italiana acquisì il brevetto da Malignani e fece da intermediaria con la Edison statunitense per la cessione del brevetto.
Inoltre è bene dire che nel 1888 Malignani realizzò una pompa che otteneva migliori risultati di quelle usate dagli altri costruttori.
Il suo problema (come del resto accadde a Cruto) era la convinzione che i tedeschi e gli americani fossero più avanti nei risultati.
Malignani ottenne questi risultati dopo estenuanti ricerche e superando non poche difficoltà ma alla fine le sue lampadine costavano molto meno di quelle di Edison perché venivano vuotate in serie, avevano anche una durata di 800 ore e davano una luce più bianca.
Il processo Malignani è citato comunque sia da Parazzoli (pag. 52 dell’op. cit. in bibliografia) sia da Grassi (pag. 419 dell’op. cit. in bibliografia).
In seguito il suo processo fu raffinato e perfezionato per fare il vuoto nei tubi elettronici: esso consiste nel racchiudere partico
lari sostanze dette getter (bario, manganese metallico, magnesio, sodio, calcio, stronzio, alluminio, cesio, fosforo e alcune leghe) in una capsula metallica inserita nel bulbo della valvola termoionica e, dopo la vuotatura con pompe molecolari e la chiusura del bulbo, questa capsula viene scaldata a circa 700 °C per mezzo di correnti a radiofrequenza indotte dall’esterno e rilascia le sostanze getter che si combinano con i gas residui facendoli depositare sul bulbo.
Ancor oggi, nella costruzione di tubi elettronici per apparecchi di alta fedeltà molto costosi, si ricorre ad un tale processo.
Una figura importante fu J. Swan (1828 – 1914). Fin dal 1850 Swan aveva realizzato filamenti di carta carbonizzata in un bulbo di vetro svuotato. Ma fino a che non usò una buona pompa con l’aiuto di C. Stearn, i suoi tentativi furono scarsi. Il suo brevetto risale al 1880 e riguarda un metodo per trattare il filo di cotone.
In Gran Bretagna nacque la Edison Swan United Electric, poiché Swan vinse una causa contro Edison che fu costretto alla collaborazione.
In seguito Swan vendette i suoi diritti di brevetto alla Brush Electric Company nel 1882.
Nel 1885 l’ufficio brevetti degli USA sentenziò che i brevetti di Edison erano basati su scoperte di W. Sawyer. Il contenzioso durò a lungo fino a che Edison ebbe un riconoscimento che il suo metodo di produzione del filamento era innovativo.
Come si è detto all’inizio, Edison fu abile sia come inventore sia come uomo di affari. Ebbe ad esempio ragione nel propendere per la messa in parallelo delle lampade, (cosa per altro già caldeggiata da Sawyer e Man ai quali venne riconosciuta la priorità nel 1877, come ricorda Parazzoli a pag. 50 del libro citato in bibliografia), ma non ebbe altrettanto successo nel volere una distribuzione industriale in corrente continua.
Comunque, dopo aver testato le più svariate sostanze, Edison si accorse che il materiale più efficace era il platino, scelta già fatta da diversi altri ricercatori. Si trattava però di un materiale costoso che forniva una efficienza limitata. Inoltre i filamenti metallici a bassa resistenza richiedevano alte correnti per ottenere una buona illuminazione.
Edison capì, forse meglio di altri, che doveva ricorrere ad un materiale ad alta resistività il quale, con una piccola corrente, poteva ottenere un discreto effetto termico. Per fare ciò essiccava il materiale, lo saldava con i reofori di metallo, poi lo rinchiudeva in un bulbo in cui faceva il vuoto.
Si narra che il suo assistente provò 1600 tipi di materiali tra i più disparati; perfino i peli di barba rossa di uno scozzese!
Infine, Edison decise di provare con un filo in cotone carbonizzato ricavato dalle macchine da cucire.
La sera di domenica 19 ottobre 1879, Edison e i suoi assistenti diedero energia al filamento di cotone e attesero. Più di 40 ore dopo, il filamento era ancora attivo e Edison capì di aver finalmente risolto il suo problema.
Ma anche questa soluzione era già stata adottata da Swan: il suo brevetto risale al 1880 e riguarda un metodo per trattare il filo di cotone: trecce lunghe circa 10 cm a forma di U carbonizzate.
Edison nel 1880 usò filamenti fatti con cartoncino di Bristol, canna di bambù e carta (carta carbonizzata che Swan aveva usato nel 1850). Materiali già provati da altri ben prima di lui.
La lampada a incandescenza ormai era una realtà e, nella versione col filamento di tungsteno, sarebbe diventata la più diffusa fonte di luce artificiale fino ai nostri giorni. Nella terza parte ci sofferme
remo sui metodi di produzione fino al 1897.
   Bibliografia.
R. Ferrini, I recenti progressi delle applicazioni dell’Elettricità, U. Hoepli Milano, 1884.
A. Wilke e S. Pagliani, L’elettricità sua produzione e sue applicazioni, Vol. II, U.T.E.T. Torino 1897, da cui sono tratte le figure 525 e 526.
L. Graetz, L’Elettricità e le sue applicazioni. F. Vallardi, Milano 1907, da cui sono tratte le figure 526 e 527.
L. Graetz, Die Elektrizität und ihre Anwendungen. Stuttgart. Verlag Von J. Engelhorn 1906. Rinvenibile all’indirizzo:
https://archive.org/details/dieelektrizittu00graegoog/page/n29/mode/2up ;
da cui è tratta la figura 103 nella quale vi sono alcuni tipi di lampade dell’epoca.
G. Grassi, Corso di Elettrotecnica, Vol. II, S.T.E.N. Torino 1910.
A. Parazzoli, Lezioni Elementari di Elettricità Industriale, Vol. II, Casa Editrice L`Elettricista, Roma 1913.
AA. VV., P. P. C. Progetto Fisica, Vol. B, Zanichelli, Bologna 1986.
 Altre notizie su A. Cruto si trovano facilmente in rete; per chi volesse approfondire l’argomento si consiglia:
G. Fabbricatore, La lampadina elettrica: una storia anche italiana, http://ebookbrowse.com/giulio-fabricatore-la-lampadina-elettrica-una-storia-anche-italiana-pdf-d351386104 .
  Notizie su A. Malignani si trovano in rete e in particolare su: Scheda Storica Udine “Città della luce” all’indirizzo http://www5.indire.it:8080/set/luce3/doc/mod1/mod1_fse/udine_luce/scheda%20storica.htm .
 Un vasto, quanto ancora parziale, approfondimento dei temi toccati si trovava nel sito: http://home.frognet.net/~ejcov/index40.html e il sito http://home.frognet.net/~ejcov/100plus.html . Che nel 2022 purtroppo non esiste più!
Per consultare le altre due schede scrivere: “filamento” su Cerca.
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
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Misuratore di potenziali fra tubazioni e terra S.E.B. Matr. N° 680388.


  Misuratore di potenziali fra tubazioni e terra S.E.B. Matr. N° 680388.
Collaudato nel 1955. Non è stato rinvenuto nell’inventario D dell’epoca.
Come si vede nelle foto, a sinistra lo sportellino consente di accedere al derivatore posto su 300 mA e alla pila che è stata tolta da anni, ma che ha danneggiato il suo alloggio e i contatti. Sopra il morsetto + di Volt si legge CuSO4, ciò può indicare che come pila campione è richiesta una del tipo Daniell.

Sia il galvanometro sia il voltmetro sono del tipo a bobina mobile e magnete permanente in C.C. di classe 2.
Il galvanometro inoltre reca la scritta: “S.E.B. – Milano Mod. M7Q N° 670713” ed ha la scala con lo 0 centrale e 30 divisioni sia verso sinistra che verso destra; in basso a sinistra, sotto ai simboli CEI, si legge: “30 microAmpere”; è stato collaudato ad una tensione di prova di 500 V.
Il voltmetro, oltre alla scritta posta in alto: “S.E.B.- Milano”, ha una doppia scala: quella superiore da 0 a 2, divisa in 50 parti uguali, e quella inferiore, da 0 ad 1, divisa anch`essa in 50 parti; reca inoltre la scritta : “Mod. M7Q N° 670718”; a sinistra in basso, sotto ai simboli CEI si legge: “1000 ohm/volt”; è stato collaudato ad una tensione di prova di 2 kV.

All`interno del coperchio vi sono le istruzioni per l`uso che riportiamo integralmente:
«MISURA DI POTENZIALI FRA TUBAZIONI E TERRA.
Collegare l`elettrodo di riferimento al terminale positivo ‘Volt’, il terminale negativo ‘Volt’ alla tubazione, assicurandosi di aver ottenuto un contatto sicuro e robusto. Spostare il commutatore di portata sulla posizione 4 , 2, 1 V. 100 mV a seconda del potenziale da misurare in modo di ottenere una buona lettura al voltmetro, e ridurre a zero il galvanometro manovrando prima il reostato ed il tasto contrassegnato con “GROSSA”, indi quelli contrassegnati con “FINE”. La lettura del voltmetro dà il valore del potenziale fra conduttura e terra. Le misure per le portate 1 e 2 V si leggono direttamente sulla scala. Per le portate 100 mV la lettura sulla scala 1 V va divisa per 10, mentre per la portata 4 V va moltiplicata per 4 (potenziale massimo misurabile 3 Volt).
MISURA DI TENSIONE DIRETTA E DI CORRENTE. Usando i morsetti + e – “Volt” e spostando il commutatore su 10, 20, oppure 100 Volt, si leggono direttamente le tensioni sul voltmetro, moltiplicando la lettura della scala 1 Volt per 10 e per 100 per le portate 10 e 100 Volt e la lettura sulla scala 2 Volt per 10 per la portata 20 Volt. La resistenza interna dello strumento sulle diverse portate è di 1.000 Ohm/V. Per le misure di corrente usare i terminali “Amp.” inserendo lo strumento in serie al circuito da provare. I valori vengono letti sul galvanometro tenendo presente di moltiplicare le letture per 10 per la portata di 300 mA , e dividere per 10 per la portata 3 Amp. Collegando lo shunt esterno ai morsetti “Amp.” con il commutatore su 300 mA la portata è di 60-30 Amp. oppure 15 Amp. fondo scala. Perciò la lettura sulla scala del galvanometro è diretta per la portata di 30 A, e va divisa per due per quella di 15 Amp, e moltiplicata per due per quella di 60 Amp. La caduta di tensione per le portate amperometriche è di 55 mV circa. Milano, 18.1.55».
Il visitatore che abbia maggiori informazioni sullo strumento è pregato di scrivere all’indirizzo: fabio.panfili@live.it.
   Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo  di Fabio Panfili.
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Piccolo alternatore a tre magneti N° 134



Piccolo alternatore con tre magneti azionato da una manovella con un sistema di ingranaggi. Numero di serie 134.
Risale ai primi anni del Novecento.
Nell`inventario del 1937 sono elencate: n° 434 dinamo piccola ₤ 150; n° 435 dinamo piccola ad eccitazione indipendente con comando ad ingranaggi, ₤ 150. Entrambe con prima destinazione al Gabinetto di Fisica.
Non ci sono prove che una di esse si possa identificare in questo esemplare.
Nell`inventario del 1956 è descritto al n° 812 come “piccola dinamo ad eccitazione indipendente con comando ad ingranaggi”, ma in realtà questo è un alternatore.
Chi scrive e l`Ing. Claudio Profumieri ne hanno esaminato il funzionamento.
Girando la manovella con un certo impegno si raggiungono i cento volt.
Considerando che i tre magneti presentano allo stato attuale un magnetismo piuttosto scarso, si può supporre che in piena efficienza si potevano generare rilevanti f.e.m.. All`oscilloscopio si osserva l`andamento sinusoidale se la rotazione viene mantenuta pressoché costante, inoltre la macchina da una scossa elettrica ben avvertibile ad un normale regime di rotazione.
L`alternatore non è reversibile: se viene alimentato con una tensione alternata fino a 40/50 volt, non mostra alcuna rotazione anche se avviato manualmente.
Un disegno di una macchina simile, riportato qui sotto, si trova a pag. 961 del catalogo: Max Kolh A.G. Chemnitz (Germany) Price List No. 50 Vols. II and III, Physical Apparatus dei primi del Novecento, dove è scritto “Magneto Generator, with three magnets, … German Post Office pattern …”.
Sempre nella stessa pagina si trova un generatore a due magneti: “magneto generator for alarm installations, … , open, with two magnets, with automatic short circuiting contact by displacing the cranck axis”.
Inoltre nella pagina seguente vi si trovano due generatori con 5 e 6 magneti. Macchine simili si trovano in altri cataloghi dell’epoca.
Il suo impiego prevalente, almeno a quanto si legge nella letteratura d`epoca, consisteva nell`azionare a distanza un campanello elettrico per chiamate telefoniche.
Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
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Dinamo piccola da dimostrazione (Museo MITI)

  Dinamo da dimostrazione a magnete permanente o a eccitazione elettromagnetica.
Nell’inventario del 1906 si legge al n° 1610: “Indotto ad anello girevole sul campo di uno magnete e di un elettromagnete – marzo 1908, costo ₤ 30”.
Poi nell’inventario generale del 1919 al n° 1176 si trova: “Piccola dinamo dimostrativa con campo magnetico permanente ed elettromagnete”.
M. Faraday e J. Henry scoprirono indipendentemente nel 1831 che quando un filo conduttore “taglia” le linee di un campo magnetico, nel filo si genera una corrente (detto nel linguaggio di Faraday).
Nel 1832 H. Pixii realizzò un generatore in corrente alternata e poi, dietro il suggerimento di A. M. Ampere, costruì il primo collettore per ottenere una corrente unidirezionale.
L’invenzione della dinamo dunque è dovuta essenzialmente al collettore costituito da un solo anello, diviso in due metà, ed inserito nel circuito in modo tale che le due spazzole invertono il collegamento ogni volta che il piano della spira è perpendicolare al campo magnetico.
All’epoca la dinamo fu accolta favorevolmente poiché gran parte degli apparecchi funzionava in corrente continua, corrente che in particolare serviva per l’elettrolisi. Ovviamente la dinamo subì continui miglioramenti costruttivi, basti qui citare l’anello di Pacinotti (1860) che segnò l’avvio alla realizzazione delle macchine industriali moderne e che costituisce il cuore di questo esemplare. L’avvolgimento di rame, posto sul tamburo girevole, è chiuso, ma ogni suo settore fa capo a due lamelle isolate contigue del collettore, in modo tale che l’insieme dei settori genera una successione di tensioni pulsanti sfasate dello stesso angolo che, sommate vettorialmente, forniscono una f.e.m. quasi costante.
Il complesso del collettore e delle spazzole si chiama “commutatore di Pacinotti”.
Questo esemplare era destinato ad uso didattico e presenta la possibilità di funzionare sia con il magnete permanente, sia con il campo magnetico prodotto dalle due bobine di eccitazione alimentate opportunamente.
La rotazione della macchina per il funzionamento come generatore avviene manualmente col sistema a manovella e ingranaggi.
Si noti il particolare del collettore, diviso in otto settori per quattro avvolgimenti.
L’ing. Claudio Profumieri nell’ottobre del 2009 ha restaurato un supporto di una spazzola e sostituito le spazzole logore.
Allo stato attuale il magnete a U è quasi smagnetizzato e comunque la macchina è funzionante sia come generatore che come motore.
Bibliografia:
AA.VV., The Project Physics Course, Unità 4, Zanichelli 1977.
L. Olivieri, E. Ravelli, Eletrotecnica-Macchine Elettriche, Vol. II, CEDAM, Padova 1962.
 La dinamo è esposta al Museo MITI su proposta di Fabio Panfili.
La foto con panno rosso è di Daniele Maiani ed è del 2004, di molto precedente al restauro.
  Foto di Claudio Profumieri, elaborazioni, ricerche e testo di Fabio Panfili.
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